"Aiutiamoli a casa loro". E i dittatori africani pregustano
Facile e conveniente dire "aiutiamoli a casa loro". Perché "a casa loro", in Africa, ci sono dittatori che fanno lauti affari con la cooperazione internazionale. Predicano solidarietà all'estero e distruggono le speranze dei loro popoli. Idriss Deby, il dittatore del Ciad, in visita in Italia nei giorni scorsi, chiede un programma di investimenti ad ampio raggio. Per usarli come?
“Aiutiamoli a casa loro”. Parole che sono musica per le orecchie degli africani, primi fra tutti gli insaziabili leader politici sicuri, sentendo annunciare sempre nuovi aiuti finanziari all’Africa, di poter contare anche nei prossimi anni sui miliardi della cooperazione internazionale allo sviluppo e degli investitori stranieri. Il presidente del Ciad, Idriss Deby, in Italia nei giorni scorsi, dice che il riscaldamento globale ha effetti particolamente gravi in Africa, occorrono interventi concreti: “abbiamo bisogno di fondi, ci vuole l’impegno di tutti, dell’Europa e anche degli Stati Uniti, perchè l’Africa non rimanga vittima dell’uso dei combustibili fossili che distruggono il pianeta”.
Deby chiede un programma di investimenti ad ampio raggio, il presidente del parlamento europeo Antonio Tajani parla del “Piano Marshall per l’Africa” di cui è promotore, che affronterà alla radice gli squilibri e le ingiustizie all’origine delle migrazioni. “La parola giusta è cooperazione – il presidente ciadiano approva – un Piano Marshall darebbe speranza all’Africa e ai suoi giovani che oggi partono e muoiono nel Mediterraneo”.
Bisognava obiettargli, con garbo ma con fermezza, che sono i governi africani che devono dare speranza ai loro giovani, non i Piani Marshall, sono loro che possono e devono combattere squilibri e ingiustizie. Questo difatti vanno dicendo, inascoltati, i vescovi africani che esortano i giovani a non emigrare e però chiedono ai leader africani di creare le condizioni politiche e socioeconomiche necessarie allo sviluppo.
In realtà le condizioni economiche esistono già. Negli ultimi 20 anni, anche dopo l’inizio della crisi finanziaria internazionale nel 2008, il prodotto interno lordo del continente africano è cresciuto in media del 4,4% annuo. Il risultato peggiore si è avuto nel 2016 con un incremento del 2,2% soltanto. Soprattutto l’Africa sub-sahariana ha infatti risentito del rallentamento dell’economia in Cina, il più importante partner economico, e della diminuzione dei prezzi delle materie prime sui mercati mondiali. L’Angola, ad esempio, secondo maggior produttore di petrolio del continente, con un record di crescita del Pil tra il 2003 e il 2013 di quasi il 150%, nel 2016 è tanto se non è entrata in recessione, come invece è successo alla Nigeria, primo produttore africano di petrolio, e, nel 2017, al Sudafrica, uno dei cinque paesi membri del Brics, il gruppo delle maggiori economie emergenti.
Tuttavia per il 2017 le previsioni sono buone. Il Fondo monetario internazionale e la Banca africana di sviluppo concordano su una previsione di crescita continentale del 2,6%.
Ma crescita economica non significa necessariamente sviluppo. La storia dell’Africa indipendente lo dimostra. Corruzione, malgoverno, incompetenza, il fardello pesante delle tradizioni tribali producono troppi sprechi di risorse finanziarie e umane. Dal 1981 al 2015 la percentuale di popolazione che vive sotto la soglia di povertà (con meno di 1,25 dollari al giorno) è effettivamente scesa, ma solo dal 50% al 41% circa.
Gli abitanti del Ciad sono meno di 18 milioni, hanno un’età media di 16 anni. Metà di loro vivono sotto la soglia di povertà. Deby è diventato presidente nel 1990 con un colpo di stato e continua a esserlo perchè in seguito, per cinque volte, si è candidato alla presidenza e ha vinto. Può candidarsi tutte le volte che vuole perchè, come altri leader africani, ha fatto sopprimere l’articolo costituzionale che limitava a due i mandati presidenziali che un cittadino poteva svolgere.
I combustibili fossili “distruggono il pianeta” e minacciano l’Africa, dice Deby, ma sono stati la sua fortuna. Dal 2003 il Ciad produce ed esporta petrolio. Può farlo perchè nel 1999 la cooperazione allo sviluppo, tramite la Banca Mondiale, ha finanziato la costruzione di un oleodotto lungo 1.100 chilometri che porta il greggio del Ciad, paese privo di sbocco al mare, fino all’Oceano Atlantico. In cambio Deby si era impegnato a depositare su un conto bancario britannico il 10% dei proventi petroliferi, istituendo un “fondo per le generazioni future”, e a investire un’altra consistente parte dei proventi in opere sociali, infrastrutture e lotta alla povertà. Per questo il Ciad nel 2001 è stato ammesso al programma di remissione del debito estero dei paesi poveri, Heavely Indebted Poor Countries Initiative, inaugurato nel 1996 dalla Banca Mondiale e dal Fondo monetario internazionale.
Ma nel 2005 Deby ha cancellato il fondo per le generazioni future e, stornandoli dai programmi di sviluppo e opere sociali, ha portato al 30% gli introiti petroliferi destinati a spese militari per il potenziamento del settore della sicurezza nazionale.
Va da sé che Idriss Deby si è dotato nel frattempo di un cospicuo patrimonio personale. Nel 2005 le sfarzose nozze con la prima moglie, Hinda, una delle più belle first lady africane, furono memorabili, e ancora di più lo sono state quelle – Deby è musulmano – con Amani Musa Hilal, nel 2012. La nuova moglie, prima delle nozze, ha ricevuto doni in oro, diamanti e gioielli per cinque milioni di dollari e per lei il presidente Deby ha pagato un prezzo della sposa da record: 21 milioni di dollari, depositati su un conto bancario del padre. Denaro mal speso, per di più. Il matrimonio è durato solo sette mesi. Si è concluso con un divorzio nel luglio dello stesso anno.