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MUGABE

Africa, prigioniera dell'ideologia terzomondista

Mugabe eletto presidente dell'Unione Africana è l'emblema di un'ideologia che caratterizza tutte le dittature e le democrazie fallite del Continente Nero. Mugabe continua ad incolpare le antiche potenze coloniali e vanta la "riforma agricola" (esproprio dei bianchi) che ha rovinato il suo Paese.

Esteri 03_02_2015
Mugabe, neo-presidente dell'UA

L’Assemblea Generale dell’Unione Africana, UA, l’organismo panafricano, ha eletto nei giorni scorsi il proprio presidente per il 2015. Ha scelto il capo dello Zimbabwe Robert Mugabe, il più longevo dei leader africani sia per età, ha compiuto 90 anni, sia per anzianità di carica: è al potere dal 1980. 

Un omaggio alla carriera? Mugabe, di etnia Shona, è l’uomo che, per assicurarsi la leadership, ha ordinato lo sterminio degli Ndebele, l’etnia dei suoi avversari politici, scatenando contro di loro la famigerata Quinta Brigata, addestrata da ufficiali della Corea del Nord. Tra il 1982 e il 1986 furono uccisi più di 20.000 Ndebele. Ha poi governato imponendosi con una spietata repressione, servendosi di clientele e brogli per stravincere ogni confronto elettorale. Intanto condannava al declino il paese che era stato una delle più prospere colonie britanniche, granaio d’Africa, produttrice di tabacchi pregiati, ricca di materie prime. Nel 2000 l’esproprio, presentato come “riforma agraria”, delle grandi proprietà terriere, per lo più possedute da cittadini bianchi, ha dato il colpo di grazia all’economia portando il paese alla bancarotta e alla fame: da allora infatti molte delle terre più fertili sono incolte o utilizzate per raccolti di sussistenza. La crisi ha indotto un quarto della popolazione, circa tre milioni di persone, a emigrare. In patria, nei periodi peggiori, fino a quattro milioni di zimbabwani sono stati assistiti dalla cooperazione internazionale.

 Robert Mugabe

Nel suo discorso di insediamento, il 30 gennaio, Mugabe ha ricordato l’ingiusta “demonizzazione” subita dal suo paese a causa della riforma agraria “con cui sono state restituite agli africani le terre ad essi sottratte dai colonizzatori”. Si è poi rallegrato per i tanti giacimenti di petrolio scoperti nel continente, “che i ciechi occhi dei colonizzatori non erano stati capaci di vedere!”. Un’ovazione ha accolto le sue consuete invettive contro il colonialismo: “Dio sia benedetto e ringraziato; ma, sia chiaro, le risorse africane appartengono solo all’Africa e a chi noi accogliamo come amico. Avremo degli amici – ha concluso – ma imperialisti e colonialisti, mai più! L’Africa agli Africani!”. 

Malgrado di applausi scroscianti, non tutti hanno approvato l’elezione di Mugabe. Qualcuno l’ha definita “uno sfortunato incidente”, dovuto alla tradizionale rotazione della carica presidenziale. Un diplomatico africano è andato oltre, parlando con la stampa: “Non è un segnale incoraggiante. Lo stile di Mugabe appartiene alla vecchia generazione dei leader che si accaparravano il potere e non lo lasciavano più. Non è più la linea dell’Unione Africana”. Ma, significativamente, il diplomatico ha accettato di parlare solo sotto anonimato. Con più coraggio, Jeggan Grey-Johnson, rappresentante del Centro per la partecipazione civile all’UA, ha dichiarato che l’elezione di Mugabe “lancia segnali ambigui e un messaggio estremamente imbarazzante a livello internazionale in merito a come si pone l’UA nei confronti dei principi di democrazia e buon governo”. 

È importante che si affermino nel continente forze politiche e sociali disposte a lasciarsi alle spalle mezzo secolo di corruzione e dittature. Non basta. È altrettanto importante che gli africani smettano di incolpare gli altri dei propri insuccessi, dei problemi irrisolti, del mancato sviluppo, incitati dai propri leader, che mascherano così le loro responsabilità, e assecondati dall’ideologia terzomondista tuttora imperante in tanti istituti universitari e di ricerca. 

A dicembre due sociologi, Alexander Kentikelenis, docente a Oxford, e Lawrence King, di Cambridge, hanno pubblicato un saggio in cui si sostiene che è colpa del Fondo monetario internazionale, Fmi, se Liberia, Sierra Leone e Guinea non sono stati in grado di fermare l’epidemia di ebola: i tagli alle spese sanitarie imposti dall’Fmi spiegherebbero le carenze enormi dei servizi sanitari di quei paesi. L’Fmi ha negato ogni responsabilità, esibendo tra l’altro dati che dimostrano come le spese sanitarie siano cresciute in tutti e tre i paesi tra il 2010 e il 2013. Sierra Leone e Liberia, oltre a non brillare per buon governo, avevano distrutto i rispettivi sistemi sanitari nel corso di due guerre civili tra le più lunghe e cruente del continente: combattute dal 1991 al 2001 in Sierra Leone e dal 1989 al 2003 (con un intervallo di due anni) in Liberia. Quanto alla Guinea, solo la morte l’ha liberata dalla dittatura di Lansana Conté, durata dal 1984 al 2008.

Epidemia di ebola in Liberia

Tutti e tre i paesi hanno usufruito dell’HIPC, il programma per i paesi poveri altamente indebitati varato nel 1996, grazie al quale i debiti contratti con Fmi e Banca Mondiale vengono saldati dagli stati che hanno aderito all’iniziativa: inclusa l’Italia che ha stanziato quasi cinque miliardi di euro. La cancellazione dei debiti doveva servire proprio a consentire lo sviluppo di servizi e infrastrutture. Adesso la Guinea chiede la cancellazione di tutti i debiti, bilaterali e multilaterali.

Il 26 gennaio Oxfam, sigla di 17 organizzazioni non governative, ha lanciato inoltre la proposta di un Piano Marshall per gli stati africani colpiti da ebola, anche in questo caso puntando il dito su responsabilità esterne: “il mondo ha tardato a mobilitarsi contro ebola; adesso non ci possono essere scuse per non aiutare i paesi colpiti a risollevarsi”. 

Per risollevare l’Europa dopo la seconda guerra mondiale un Piano Marshall è stato sufficiente. Per l’Africa se ne attuano uno dopo l’altro dalla fine dell’epoca coloniale e ancora non sono bastati.