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CONTINENTE NERO

Africa, all'ONU è di scena l'antioccidentalismo

Chi è causa del suo mal pianga
se stesso, ma non così certi leader.
In Malawi la vita media è 51 anni e il dittatore Nguema collezione Bugatti.

Attualità 04_10_2011
Obiang Nguema

 

Proseguono a New York, al Palazzo di Vetro, i lavori della 66a Assemblea Generale delle Nazioni Unite e, come di consueto, l’Occidente riceve la sua parte di rimproveri mentre si susseguono gli interventi dei capi di stato e di governo del Sud del mondo.

In prima fila anche quest’anno tra coloro che puntano il dito contro gli Stati Uniti e i loro alleati spicca Hugo Chavez, il presidente del Venezuela, che ha denunciato tra l’altro, chiamando in causa anche l’ONU, il "fallimento storico" nella lotta alla fame nel Corno d’Africa: come se le carestie ricorrenti in quella regione e nel resto del continente africano non fossero dovute ai decenni di malgoverno e di mancato sviluppo a partire dalla fine della colonizzazione europea.

Peraltro, quando a prendere la parola sono i leader africani e i loro portavoce, nella maggior parte dei casi in effetti parlano della povertà dei loro Paesi come se si trattasse di un fenomeno nuovo e recente, provocato dalla crisi economica internazionale: come se prima tutto andasse per il meglio.

Così il ministro degli esteri del Burkina Faso, Djibrill Ypene Bassole, ha spiegato i gravi disordini sociali e le rivendicazioni degli ultimi mesi come «conseguenza diretta della difficile congiuntura economica nazionale ed internazionale che genera instabilità e mette a dura prova la coesione delle nostre società»: come se invece non pesassero da decenni sulle difficili condizioni di vita generali del suo paese, con una disoccupazione al 77%, le scelte politiche ed economiche del presidente Blaise Compaoré, al potere dal 1987, e, negli ultimi tempi, la crisi politica della Costa d’Avorio dove lavorano da tre a quattro milioni di burkinabé (su una popolazione di poco superiore ai 16 milioni).

Anche il ministro degli esteri del Benin, Nassirou Bako Arifari, ha spiegato i «pesanti sacrifici» e «l’estrema povertà patiti dai due terzi degli 800 milioni di persone» residenti nei paesi meno sviluppati con l'«incerta e cupa situazione economica internazionale», chiedendo al prossimo G20 in programma a dicembre, di «rispettare gli impegni presi in termini di finanziamento per lo sviluppo dell’altra parte del pianeta».

Mahamadou Issoufou, presidente del Niger, a sua volta ha criticato le politiche monetarie sbagliate e gli scambi iniqui, ricordando che «negli ultimi 40 anni il numero di paesi molto poveri è raddoppiato e quello delle nazioni povere è raddoppiato in soli tre decenni comprovando il fallimento dell’applicazione dei modelli di sviluppo», ma dimenticando che in molti degli stati attualmente poveri - e il Niger è uno di questi - per decenni non si è neanche provato ad applicare un modello di sviluppo che consentisse alla popolazione di superare il livello delle economie di sussistenza.

Tra le tante dichiarazioni, tre sono particolarmente degne di nota. La prima è quella del presidente della Repubblica Democratica del Congo, Joseph Kabila, secondo il quale «la pace e la sicurezza regnano su tutto il territorio nazionale» del suo aese e «le istituzioni repubblicane funzionano tutte benissimo». Invece, come è universalmente noto, l’intero l’est del Congo è tormentato da bande armate, movimenti armati antigovernativi e persino dalle truppe governative che inferiscono indisturbati sulla popolazione con abusi, stupri, saccheggi e sequestri di persona. Va aggiunto a ciò il degrado generale delle infrastrutture e la mancanza di servizi di base.

Sorprendente è stato anche l’intervento del presidente dell’Eritrea, Isaias Afwerki. Il leader eritreo ha infatti affermato che, nonostante il bilancio «deludente e cupo» del mezzo secolo trascorso dalla decolonizzazione, «si sta aprendo una nuova era per il continente, una parte dell’Africa è già consapevole delle proprie risorse umane e naturali, decisive per raggiungere il successo». È giunta l’ora - ha aggiunto - di «dare precedenza alla cooperazione regionale e continentale per sviluppare le proprie infrastrutture e far crescere commercio e economia». Sembrerebbe un discorso promettente se Afewerki non stesse sprecando le risorse umane del proprio paese ormai da quasi 20 anni durante i quali inoltre i suoi rapporti con i governi degli stati confinanti sono consistiti essenzialmente in aggressioni militari.

La terza dichiarazione a dir poco imprevedibile è del ministro degli Esteri del Sudan, Ali Ahmed Karti, che ha definito il presidente sudanese Omar al Bashir «un uomo di pace che merita rispetto invece delle accuse mosse dalla Corte penale internazionale», un «leader legittimo, scelto con elezioni libere e giuste». Anche in questo caso, nessuno ignora le responsabilità di al Bashir per i milioni di morti e profughi durante la pluridecennale guerra civile da lui scatenata contro le popolazioni del sud ora indipendenti e per la decimazione delle etnie nilotiche del Darfur, a milioni sfollate per sfuggire alle milizie armate e finanziate dal regime di Khartoum.

Ma gli interventi africani più sconcertanti sono stati finora quelli del Malawi e della Guinea Equatoriale. Eccone la sintesi fatta dall’agenzia di stampa missionaria MISNA per quel che riguarda il Malawi: secondo Arthur Peter Mutharika, ministro degli Esteri di Lilongwe, come molti paesi dell’Africa sub sahariana anche il Malawi «molto vulnerabile, è stato colpito in pieno dalla recente crisi economica e finanziaria globale, con la conseguenza diretta dell’aumento dei prezzi del cibo nei paesi in via di sviluppo». Le rivolte della primavera araba, che hanno segnato un «cambiamento epocale» hanno alimentato «altri problemi quali il rincaro del carburante». Il ministro, che è anche fratello del presidente Mutharika, ha denunciato inoltre «il perdurare del colonialismo e dell’ingerenza straniera sotto ogni forma» in violazione aperta con «il diritto inalienabile delle persone all’autodeterminazione» (MISNA, 28-9-011).

In realtà, invece, il Malawi è in difficoltà estrema soprattutto da quando la Gran Bretagna ha sospeso i finanziamenti al governo, che contava per il 40% del proprio bilancio sugli aiuti britannici: e lo ha fatto dopo che alcuni mesi or sono il presidente Mutharika, seccato per essere stato definito un "dittatore! da un diplomatico inglese, ha interrotto i rapporti con la Gran Bretagna. Le recenti proteste popolari in Malawi sono state represse duramente e decine di manifestanti hanno perso la vita il che, inoltre, ha indotto gli Stati Uniti a sospendere a loro volta gli aiuti al paese.
Per finire, la Guinea Equatoriale. Il suo capo di stato, Obiang Nguema [nella foto], ha parlato all’Assemblea anche in qualità di presidente di turno dell’Unione Africana denunciando che l’Africa, «continente a lungo sfruttato da potenze straniere, sta subendo una nuova forma di neocolonialismo». Il resto del discorso si può immaginare. Nessuno ovviamente ha avuto l’ardire di richiamare il leader alle proprie responsabilità nel disastro sociale ed economico del proprio paese, esportatore di petrolio e con una popolazione di 700 mila abitanti che potrebbero essere i più ricchi del pianeta se i proventi del greggio entrassero nelle casse dello stato e fossero bene impiegati. Nguema, 69 anni, al potere dal 1979 grazie a un colpo di stato contro lo zio Francisco Macias, è tra i capi di stato africani su cui Parigi indaga per accertare la provenienza dei capitali con cui hanno acquistato proprietà immobiliari milionarie in Francia. Mentre la speranza di vita alla nascita dei suoi connazionali è di soli 51 anni, Nguema colleziona tra l’altro vecchie automobili Bugatti.