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CONFLITTI

Afghanistan, 10 anni di luoghi comuni

L’Occidente paga l’incapacità nello spiegare la necessità dell'azione militare. E il pur grave costo di vite umane è inferiore ad altri conflitti.

Attualità 11_10_2011
Afghanistan


La ricorrenza dei dieci anni dall’avvio delle operazioni anglo-americane in Afghanistan, meno di un mese dopo gli attentati dell’11 settembre, ha registrato generalmente commenti che evidenziano dubbi, perplessità e una sostanziale incertezza circa il futuro di quel Paese. Analisi apparse sui media di tutto il mondo basate anche su non pochi luoghi comuni due dei quali sono particolarmente ricorrenti. Il primo concerne il supposto errore strategico compiuto dagli stati Uniti nel 2003 aprendo il conflitto iracheno togliendo così risorse alla campagna afghana scatenata nell’ottobre 2001 e che portò rapidamente alla caduta del regime talebano.

E’ sufficiente andare a sfogliarsi i giornali degli anni 2003 e 2004 per accorgersi che l’interesse per l’Afghanistan era scemato dopo la caduta del regime talebano e i tentativi falliti di prendere Osama bin Laden. In pratica dalla metà del 2002 l’Afghanistan ha smesso di fare notizia perché i talebani erano ridotti al lumicino. La missione militar italiana a Khost (l’Operazione Nibbio), lungo la frontiera con il Pakistan nell’ambito di Enduring Freedom, durò sei mesi tra marzo e settembre 2003 impegnando un reggimento di alpini e uno di paracadutisti che non ebbero caduti.

Qualcuno ricorda che i militari alleati uccisi in Afghanistan furono 70 nel 2002, 58 nel 2003 e 60 l’anno successivo? Molti di questi inoltre morirono in incidenti che nulla avevano a che fare con i talebani perché gli insorti erano quasi del tutto scomparsi, regrediti allo “stadio insurrezionale primario” come scrisse nel suo rapporto di fine missione il generale David Barno che nel 2004 guidò le forze alleate. Dopo la caduta di Kandahar i talebani erano fuggiti nell’area tribale pakistana a leccarsi le ferite, riorganizzarsi e reclutare nuovi miliziani.

Certo la comunità internazionale perse tempo nel decidere se limitarsi a impedire il ritorno dei talebani o traghettare l’Afghanistan verso una difficile democrazia e non si fece molto per premere sul Pakistan affinché controllasse le sue regioni di confine, problema anche oggi di scottante attualità. Difficile però affermare che l’Amministrazione Bush abbia trascurato quel conflitto per occuparsi dell’Iraq per la semplice ragione che il conflitto afghano era finito, limitato a qualche scaramuccia o attentato. Non va dimenticato inoltre che l’azione militare contro Saddam Hussein non fu un ”capriccio” ma rispondeva alla strategia di risposta agli attentati dell’11/9 che prevedeva di portare la democrazia nel mondo islamico come antidoto contro il terrorismo.

I talebani tornano a farsi vedere nel 2005 e poi in forze nella primavera-estate 2006 con una serie di attacchi alle porte di Kabul, lungo il confine pakistano e soprattutto nella provincia di Helmand dove gli avamposti britannici vengono assediati per giorni. Non è un caso che a maggio e settembre di quell’anno si registrino i primi caduti italiani uccisi dal nemico mentre quell’anno le perdite alleate raggiungeranno i 191 soldati. Sessanta in più del 2005 ma non ancora i 711 registrati nel 2010.

Il secondo luogo comune che impedisce di analizzare in una prospettiva corretta il conflitto riguarda la più volte richiamata impossibilità degli Occidentali di vincere in Afghanistan perché né l’Impero Britannico né l’Unione Sovietica sono riusciti a farlo. Affermazione che non tiene conto che a differenza di britannici e dei sovietici (che volevano addirittura modificarne la struttura sociale con i sistemi comunisti noti in tutto il mondo) Stati Uniti e alleati non puntano a soggiogare il Paese ma a sviluppare una leadership autonoma locale in grado di offrire garanzie per la sicurezza e la stabilità. Non a caso il consenso alla presenza statunitense tra gli afghani era molto elevato fino al 2005 ed è sceso progressivamente negli ultimi anni quando è apparso evidente che le forze alleate non erano in grado di impedire la ripresa l’insurrezione talebana.

Il problema del consenso emerge tradizionalmente nei conflitti molto sanguinosi oppure prolungati e in Occidente tutti i sondaggi indicano un’opinione pubblica generalmente favorevole al ritiro da Kabul, soprattutto in Europa. I dati rilevati in Germania il 5 ottobre parlano chiaro. Il 70 per cento degli intervistati dall'Istituto di ricerca Yougov è convinto che la missione in Afghanistan sia destinata all'insuccesso, il 68 per cento crede che Berlino non avrebbe mai dovuto inviare i militari a Kabul e il 44,2 è favorevole a un ritiro immediato.

L’Occidente paga l’incapacità dei governi di spiegare all’opinione pubblica gli interessi nazionali che impongono la presenza militare in Afghanistan e di pagare un prezzo in denaro (575 miliardi di dollari spesi dagli USA, 4,4 miliardi di euro dall’Italia) e vite umane che solo una società che ha rimosso completamente dalla sua coscienza il concetto di guerra può definire elevato.

In dieci anni sono morti 2.757 militari alleati dei quali 1803 statunitensi e 45 italiani. Nel complesso circa 2 mila di meno di quanti ne sono morti in Iraq dal 2003 ma, giusto per fare qualche paragone picciolo, molti meno anche degli oltre 4mila italiani che muoiono ogni anno sulle strade e neppure il triplo del migliaio di vittime registrate ogni anno, sempre in Italia, sul lavoro. Quest’anno poi, per la prima volta dal 2001, le perdite alleate sono in calo del 17 per cento rispetto all’anno scorso: 473 caduti all’8 ottobre contro i 572 alla stessa data del 2010.

Secondo le stime degli organismi internazionali dieci anni di guerra in Afghanistan hanno provocato complessivamente la morte di 67 mila persone: oltre ai soldati alleati vi sono 15mila civili, 38mila talebani, 10mila militari afgani e 1.800 contractors internazionali. Numeri rilevanti ma nulla a che vedere con i 200 mila morti in quattro anni di guerre balcaniche, o i 400 mila in otto anni di conflitto nel Darfur, né col milione di ruandesi uccisi dalla pulizia etnica nel 1994, solo per citare esempi recenti.

In definitiva quella afghana resta una guerra anti-insurrezionale a bassa intensità che può essere vinta solo prolungando la presenza militare finché necessario, potenziando e affiancando le forze governative. Esattamente quello che noi europei abbiamo fatto per oltre 200 anni negli imperi coloniali dove rivolte e instabilità erano una costante e venivano affrontate con piccoli contingenti affiancati da truppe locali con operazioni militari e aiuti alla popolazione.