Addio bellezza, sono solo canzonette. Purtroppo
Ormai la musica liturgica è un "sanremo" dei poveri. Invece il canto in chiesa deve rispondere alle caratteristiche di nobiltà, bellezza, ricercatezza, raffinatezza, e non cercare facili scappatoie nei tranelli del sentimentalismo. Il libro del maestro Porfiri "Ci chiedevano parole di canto"
Negli anni Sessanta mi toccò di assistere, nel mio paesello natale, a una messa «beat». Non poteva essere stata un’iniziativa del parroco, troppo anziano. Sicuramente non aveva resistito all’«ansia di rinnovamento» che faceva fremere i «giovani» parrocchiardi. Il complessino si piazzò dietro l’altare, debitamente microfonato. In una chiesa ottocentesca in cui anche un sussurro rimbombava. Il risultato fu un disastro, con le chitarre elettriche che coprivano la voce del prete, col basso che faceva tremare le viscere, con la batteria che assordava e i colpi di piatto che stressavano le orecchie. Da allora il complessino domenical-liturgico fa parte del nostro panorama diffuso e consueto. Ma chi ha cominciato?
In quale documento magisteriale è prescritto il complessino? Non si sa. E ormai sono passati troppi decenni perché valga la pena chiederselo. E’ così e basta. La musica leggera è entrata in chiesa e c’è rimasta. Con tanto di «canti» codificati. Ogni tanto si sente l’annuncio: «Adesso facciamo il canto numero 686». Il che è un invito ai fedeli a prendere l’apposito libro, aprirlo alla pagina prescritta e cantare. Suppongo sia quello che si intende per «partecipazione». Ora, ci si chiede quanti siano, questi «canti», visto che paiono centinaia. Ci si chiede anche chi li scrive, visto che sono anonimi, e in virtù di quale autorità li si licenzia per la stampa. Adempiono gli obblighi Siae relativi al diritto d’autore? Boh. E’ pur vero che la messa cantata & parlata assomiglia alla funzione protestante, nella quale ciò che conta sono il sermone e i canti (non c’è altro).
Va anche detto che spesso queste canzonette non fungono neanche da colonna sonora, giacché può capitare che il «Sanctus» sia un’allegra marcetta (e dovrebbe introdurre il Sacrificio della Croce, mah) e che la fila per fare la comunione sia infastidita da un’assordante ritmica. Il prete accontenta i «giovani», par di capire; fosse per lui… Invece può essere che il "Sanremo" dei poveri piaccia anche a lui, e pazienza se la chiesa è provvista di organo faraonico. Vuoi mettere le chitarre a dodici corde (così fanno più casino) e il microfono ben temperato?
Scrive il maestro Aurelio Porfiri nel suo libro Ci chiedevano parole di canto (Chorabooks, pp. 60, €. 13,50): «Il musicista liturgico deve debitamente ossequiare e rispettare il clero ma essere ferocemente contro il clericalismo, anche se essi coincidono nella stessa persona». In pratica: «Se un documento magisteriale dice una cosa e il prete ne dice un'altra, il prete sbaglia!». Sacrosanta verità. Ma come si fa? Chi glielo dice, al prete, di licenziare con modi garbati il complessino (che è gratis) e assumere un maestro organista (che vuole lo stipendio?). Il compositore di musiche liturgiche (e Porfiri lo è) magari pensa al motu proprio «Tra le sollecitudini» (1903) di san Pio X dedicato alla musica sacra, ma anche a quanto affermato dal Concilio Vaticano II in materia.
Però il Concilio è finito e il suo posto è stato preso dal suo «spirito», che consiste nel «liberi tutti». Canzonette, dunque, e va già bene se il prete dal pulpito non vi bacchetta perché non vi unite al coro (ne ho sentiti alcuni che, anzi, rimproveravano i fedeli perché non si sgolavano abbastanza). Così, se il giorno dell’Immacolata tra i canti vi ritrovate infilato un brano di Fabrizio De Andrè, portate pazienza. E’ tratto dall’album La buona novella del 1970 e parla di Maria, tanto basta. E se poi, per sua stessa ammissione, l’autore si era ispirato ai vangeli apocrifi, pace.
«La musica liturgica deve rispondere a queste caratteristiche di nobiltà, bellezza, ricercatezza, raffinatezza, e non cercare facili scappatoie nei facili tranelli del sentimentalismo banale e in canti che tradiscono effeminatezza e ricerca di un (troppo) facile consenso di popolo», dice Porfiri. Ma siamo davvero sicuri che il «consenso di popolo» ci sia? Il «consenso» è quello del complessino, il popolo piglia quel che gli danno. Visto che non gli danno altro.