Accordo di Parigi, accettato senza passare dal voto
Completato il processo delle ratifiche, l'accordo di Parigi sui cambiamenti climatici entrerà in vigore il prossimo 4 novembre. E' stato ratificato da poco più della metà dei paesi firmatari, ma varrà per tutti. E Obama non l'ha neppure fatto votare dal Senato. Perché?
Martedì scorso l’Ue ha ratificato l'accordo di Parigi sul clima. Oggi gli atti delle ratifiche vengono depositati all’Onu. E da oggi in poi inizia il conto alla rovescia: da qui al 4 novembre, perché dopo quella data l'accordo entrerà in vigore. Ci si sarebbe attesi un lungo processo di ratifica, parlamento per parlamento. Ma, tanto per cominciare, nel nostro legislativo quell’accordo non è stato neppure votato. E negli Usa è in corso un vivace dibattito, alimentato dall’opposizione repubblicana, perché anche in quel caso l'unica persona che ha preso una decisione è il presidente.
L’iter è curioso, a dir poco. Dopo la firma all’ultima conferenza sul clima di Parigi (Cop 21), per l'entrata in vigore dell'accordo, basta la ratifica da parte di 55 paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni del pianeta. La maggioranza qualificata è stata superata con la ratifica da parte del Parlamento Europeo e dei parlamenti di sette Stati membri dell’Ue: Austria, Francia, Germania, Malta, Portogallo, Slovacchia e Ungheria. Il loro peso è stato sufficiente per rendere operativo l’accordo. Con questo meccanismo si sono accelerati i tempi. Dopo appena undici mesi dalla conclusione della Cop 21, c’è già un accordo operativo. Per il protocollo di Kyoto (1997), il primo di questo genere, ci vollero ben 8 anni. Mentre erano 35 i paesi di Kyoto, ora sono 62 quelli di Parigi. India e Cina, le due più grandi potenze emergenti sono a bordo, mentre si erano opposte al protocollo di Kyoto. Anche questo spiega i toni trionfalistici con cui Ban Ki Moon, segretario generale dell’Onu, saluta le ultime ratifiche parlamentari come un “passo storico”. Per accelerare l’iter, l’accordo non è stato elevato al rango di trattato (legalmente vincolante), ma è un impegno scritto che ciascuna parte contraente prende volontariamente per ridurre le emissioni.
Velocità contro democrazia: solo la metà dei paesi (e non tutti con un voto parlamentare) ha ratificato. E si capisce anche il perché: al di là della retorica ufficiale, infatti, la Cop21 ha prodotto un documento che (come spiegavamo qui), se preso sul serio e applicato alla lettera per raggiungere il suo obiettivo più ambizioso (mantenere la crescita della temperatura al si sotto dei 2 gradi centigradi), provocherebbe una deindustrializzazione quasi integrale del pianeta. Perché implicherebbe una riduzione di 6000 miliardi di tonnellate di Co2, più di 200 volte tanto quel che produce tutto il mondo. L’accordo si limita a proporre una riduzione di 56 miliardi di tonnellate di Co2, l’1% di quanto sarebbe necessario per raggiungere l’obiettivo. Nonostante tutto, il costo sarà estremamente elevato. Nell’ipotesi che si continuino a usare combustibili fossili (come il petrolio), l’adattamento della produzione energetica ai nuovi standard costerebbe, a tutti gli Stati che hanno aderito, una cifra pari a 154mila miliardi di dollari nella migliore delle ipotesi, 570mila miliardi di dollari nella peggiore. Per rendere l’idea di che cifre stiamo parlando, il Pil italiano è pari a poco più di 2mila miliardi di dollari.
Sono soprattutto i costi che spingono l’opposizione americana a protestare contro la scelta di Barack Obama di aderire a Parigi. Paul Ryan, presidente della Camera, contesta anche lo spreco di energia naturale che questo accordo implica: “L’energia che è ancora abbondantemente sfruttabile a basso costo, sarà ora e per sempre chiusa sotto terra, eliminando la crescita economica e l’aumento dei posti di lavoro che si creano con lo sviluppo. Il risultato sarà solo un aumento del costo dell’energia per gli americani, che sarà doloroso soprattutto per i più poveri fra noi”.
La contestazione negli Usa è anche di natura costituzionale. Un trattato è legalmente vincolante e, una volta ratificato, diventa realmente una legge applicata su tutto il territorio federale, in base alla quale qualsiasi cittadino può anche intentare una causa civile. Per questo non basta la ratifica del presidente, ma occorre anche quella del Senato, dopo un regolare voto a maggioranza assoluta. La formula dell’accordo di Parigi, invece, non è legge, non essendo un trattato. Però Obama, che è stato il suo primo promotore nel mondo, lo considera sufficientemente vincolante da condizionare il suo successore, chiunque egli (o ella) sia. E in un’ambigua dichiarazione per la stampa, Samantha Power, ambasciatrice Usa all’Onu, ha definito “trattato” quello di Parigi. Il documento firmato da Barack Obama è incluso nel dossier dei “Trattati multilaterali consegnati al Segretario Generale” dell’Onu.
Entrerà in vigore il prossimo 4 novembre, dunque quattro giorni prima delle elezioni presidenziali. Chiunque vinca, si ritroverà alla Casa Bianca con l’accordo già in vigore da due mesi. Se vincesse Hillary Clinton, sarebbe comunque d’accordo con la ratifica del suo predecessore. Ma se vincesse Trump? Il candidato repubblicano ha detto chiaramente di essere contrario, ma non ci potrebbe fare nulla. Il testo, a quel punto, non potrebbe più essere modificato. Potrebbe ritirare gli Usa unilateralmente, ma dovrebbe dare tre anni di preavviso: dunque passerebbe i tre quarti del suo primo mandato con l’obbligo di implementare (anche contro la sua volontà) le politiche prescritte dall’accordo. Oppure potrebbe ignorarlo (d’altra parte non è legalmente vincolante), ma esponendosi all’accusa di violare un accordo scritto. Insomma, un “bel” regalo lasciato in eredità dal presidente più ecologista d’America.
Ed è un iter a cui dovremmo abituarci. Ormai è prevalsa l’idea, sia a livello nazionale (Usa), che sovranazionale (Ue e Onu), che la lotta al cambiamento climatico sia troppo importante per essere lasciata alla democrazia. Se il presidente Obama considera che questa sia l’emergenza nazionale numero uno, trova anche normale ricorrere a espedienti e mezzi straordinari per farvi fronte. Come è suo solito anche in altre materie, d'altra parte. Quanto all’Unione Europea, la questione pare non porsi nemmeno. “L’Europa unita porta risultati”, ha dichiarato il presidente della Commissione Jean Claude Juncker, dando per scontato che si capisca che “unita” vuole dire: “che scavalca la volontà degli Stati membri e dei loro parlamenti”.