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DON VIRGILIO BALDUCCHI

Accogliere i segni della presenza di Dio anche nelle carceri

“Il bello di essere sacerdote in carcere è che vedi lavorare Dio in situazioni che diresti disperate”, perché “Dio parla al cuore degli uomini in qualunque posto, anche in carcere”. Parla Don Virgilio Balducchi, Ispettore Generale dei Cappellani Carcerari Italiani. Un servizio che muove anzitutto dall’ascolto e dall’accoglienza dei segni della presenza di Dio fra le sbarre. 

Ecclesia 12_01_2015
Don Virgilio

“Il bello di essere sacerdote in carcere è che vedi lavorare Dio in situazioni che diresti disperate”, perché “Dio parla al cuore degli uomini in qualunque posto, anche in carcere”. Così Don Virgilio Balducchi, Ispettore Generale dei Cappellani Carcerari Italiani, tratteggia la bellezza del suo lungo ministero accanto ai reclusi e alle loro famiglie. Un servizio che muove anzitutto dall’ascolto e dall’accoglienza dei segni della presenza di Dio fra le sbarre. Una presenza che porta luce e inattesa speranza in un abisso di dolore e disperazione. Siamo andati a trovarlo.

Don Virgilio, dall'inizio del 2012 lei è Ispettore Generale dei Cappellani delle Carceri. Qual è il ruolo che i sacerdoti sono chiamati a svolgere oggi negli istituti di pena? 

Il ruolo dei cappellani nelle carceri è regolato da una legge tra lo Stato Italiano e quello Vaticano, che prevede che in ogni carcere sia rispetto il diritto di professare la propria fede. Il sacerdote viene dunque inviato dal Vescovo per presiedere la comunità cristiana che c’è in carcere, e svolge – entro i limiti del possibile - tutte le attività che si svolgono nelle altre comunità cristiane: incontra le persone, celebra i sacramenti, anima la testimonianza della carità, il suo è un ruolo di accompagnamento di fronte alle problematiche esistenti. 

L’impegno della Chiesa in favore della popolazione carceraria si concretizza in forme di assistenza variegate. Poco si sa, però, delle reali dimensioni di questo servizio: quali sono in generale gli ambiti di intervento?

L’intervento si svolge sia dentro che fuori dal carcere. All’interno si traduce in attività di ascolto della persona, accoglienza dei suoi problemi, accompagnamento relazionale e spirituale, catechesi, vissuto dei sacramenti e lettura della Bibbia. In queste attività i sacerdoti sono aiutati da laici o dai detenuti stessi. All’esterno l’attività consiste nella sensibilizzazione sulle tematiche del carcere, dei detenuti e degli operatori per comprendere come meglio aiutare chi ha sbagliato. Ci sono attività di accoglienza che permettono ad alcune persone di usufruire di alternative al carcere scontando la pena sul territorio. Abbiamo fatto un’indagine lo scorso anno rilevando che i cappellani hanno sul territorio nazionale circa 70 luoghi di accoglienza che hanno ospitato circa 300 persone in alternativa al carcere, 800 in permesso premio e 800 familiari. I familiari spesso vengono da lontano, e allora li accogliamo perché così possono incontrare nella struttura i detenuti che possono uscire in permesso o andare a trovarli in carcere. 

Che differenza c’è fra l’intervento dei laici e l’opera svolta dai cappellani? 

Il sacerdote amministra i sacramenti, celebra la Messa e annuncia la Parola, ma a parte questo non c’è alcuna differenza nell’intervento, le azioni di solidarietà e vicinanza sono condotte insieme in piena collaborazione per offrire opportunità di cambiamento. E’ un vantaggio perché soprattutto nelle carceri grandi il sacerdote da solo non può raggiungere tutti. 

Parlare di Dio in carcere: si può? In che termini? 

Più che parlare di Dio bisogna accogliere ciò che Dio fa anche li, perché Dio parla al cuore degli uomini in qualsiasi posto, anche in carcere. Questo me lo ha insegnato molto bene un amico che è venuto da me e mi ha detto “ho trovato questa Bibbia, non sapevo niente, ho cominciato a leggerla e ora vorrei discuterne con te”. Questo significa che Dio ci precede in tantissimi casi. Poi, entrando in relazione, sanno che sei sacerdote, e allora accade che si possa parlare di Dio, credenti o non credenti prima o poi si discute di che senso ha credere nel Signore in un posto dove le speranze sembrano svanite. Di solito il rapporto prolungato con le persone e il vissuto dei sacramenti all’interno del carcere diventa anche il “luogo” in cui Dio dà loro speranza. Dio usa i sacerdoti, usa i detenuti che sono nella stessa cella, usa una Bibbia abbandonata nella cella, o un altro che ti invita a vedere cosa si fa negli incontri di catechesi. Dio lavora in tutti i posti e soprattutto nelle situazioni più critiche. Il bello di essere sacerdote in carcere è che vedi lavorare Dio in modo piuttosto forte di fronte a situazioni per cui diresti “quest’uomo è da buttare via”, e invece Dio lo accoglie e gli porta la sua testimonianza. 

Il Vangelo insegna che Cristo è accanto all’uomo che soffre, che la sua giustizia non è quella degli uomini, che il dolore è strumento di redenzione: come trasmettere questo messaggio ai carcerati? 

Sicuramente con la Parola di Dio, che lo ricorda più volte, e con gli atteggiamenti. I cristiani, i sacerdoti ma anche gli agenti e i detenuti che credono possono testimoniarlo con la propria fede.

Un ambito di intervento specifico è quello delle carceri minorili. Qui la rieducazione ha un valore strategico: siamo di fronte agli uomini di domani. Come veicolare idealità educative?

Quello minorile è un carcere in cui il livello educativo è più alto che altrove, e dunque è importante il lavoro d’insieme, fra sacerdote e educatori, in progetti specifici per la persona.  

Lei è stato per oltre vent'anni cappellano nel carcere di Bergamo: ci racconta una “giornata tipo”? 

Arrivavo abbastanza presto al mattino e il primo buongiorno era per le guardie: erano sette, tante quante le porte che dovevano essere aperte per arrivare al mio ufficio. Poi facevo colloqui con i detenuti che lo chiedevano o che io chiamavo, e tra le mie priorità c’era quella di incontrare i nuovi arrivati per dire che io esistevo e che la comunità cristiana del carcere c’era anche per loro. Poi facevo un giro per le sezioni, magari per salutare chi non avevo potuto incontrare o per far arrivare a qualche detenuto una risposta da parte della famiglia; oppure incontravo gli altri operatori, psicologi, educatori, insegnanti, per condividere riflessioni e fatiche. Talvolta tornavo nel pomeriggio e lavoravo alle attività esterne di accoglienza.

Questa esperienza le ha permesso di sperimentare da vicino le criticità della condizione carceraria. Come fronteggiare ad esempio il sovraffollamento, che alimenta il degrado, la violenza e la disperazione? 

Il sovraffollamento non può essere affrontato come una “emergenza”, nella quale si fa quello che si può. Fortunatamente le ultime norme e le ipotesi di condanna europea hanno contributo a ridurre il numero di detenuti in carcere, tuttavia si vince se si fa in modo che il carcere venga utilizzato il meno possibile per favorire le pene alternative. 

Papa Francesco è molto sensibile alla condizione dei carcerati. Tra i suoi primi atti pubblici – aspettando la Pasqua del 2013 – scelse la lavanda dei piedi ai minori detenuti a Casal del Marmo. Più recentemente, parlando ai penalisti, il Papa ha evidenziato il “rischio di non conservare la proporzionalità delle pene”, ha osservato che “si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio” e che è sfumato “il dibattito sulle pene alternative”. Infine ha definito l’abuso della carcerazione preventiva come una forma di “pena illecita occulta”. Cosa ne pensa? 

Condivido pienamente quello che ha detto Papa Francesco, che ha dato indicazioni che vengono dall’esperienza ecclesiale, lasciando ai giuristi il compito di fare le norme, e certamente la custodia cautelare deve essere usata il meno possibile. Va detto però che il governo italiano negli ultimi anni ha approvato norme che restringono un po’ l’uso della custodia e non è un caso che sia diminuita l’entrata in carcere.

Il confronto obbligato tra culture diverse può acuire i conflitti in carcere o essere l’occasione per una comprensione e valorizzazione reciproca: alcuni operatori vedono il carcere come un possibile laboratorio di convivenza. Cosa ne pensa?

Sia il conflitto che il dialogo non si verificano per caso. Se non si fa nulla per favorire una seria mediazione culturale allora si innescano i conflitti. Servono invece progetti seri, non solo insegnare una lingua ma far incontrare e dialogare le culture, coglierne le differenze e rispettarle, rispettare i diritti comuni. A Bergamo, ad esempio, la presenza di un mediatore culturale di lingua araba, peraltro una donna, aiutava la comprensione reciproca. Partecipare insieme alla scuola, a laboratori di teatro aiuta il dialogo che poi diventa la normalità. 

La riforma della giustizia è uno dei temi di primo piano di tutti i governi recenti. Quali interventi considera necessari? 

Prioritaria è una riforma del codice penale che faccia sì che la pena carceraria sia l’ultima opzione possibile. In alternativa servono percorsi di responsabilizzazione e riconciliazione su tutto il territorio. Sono state fatte delle piccole riforme ma l’impianto è ancora da cambiare. 

Nei tanti anni di servizio presso le carceri, ricorda un episodio che lo ha colpito particolarmente? 

Ricordo un amico che mi ha insegnato bene cosa vuol dire fare il sacerdote in carcere: un amico che ho seguito molto e di cui purtroppo ho fatto anche il funerale. L’ultima volta che è entrato in carcere, dopo aver vanificato tutti i progetti che gli avevo affidato, casa, lavoro e accoglienza, e ha letto sul mio viso che non ero contento, mi ha detto: “Caro Virgilio – ormai la fraternità alta, nonostante le stupidate che combinava, tra noi consentiva questo linguaggio – se io non credo che potrò cambiare, va bene. Ma se non ci credi tu, allora non venire più qui a dire messa la domenica”. Mi ha insegnato cosa vuole essere un sacerdote che crede veramente alla Misericordia di Dio.