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GRAN BRETAGNA

Aborto forzato o fallito: i mostri dello Stato edonista

Due donne inglesi. Una violentata e costretta ad abortire dallo Stato senza il suo consenso e la seconda istigata a fare lo stesso con la figlia in grembo malata. Due storie diverse ma accomunate da una mentalità comune che in Gran Bretagna spicca con chiarezza cristallina: rimuovere la sofferenza, costi quel che costi. E sta proprio qui l’inghippo, nel prezzo nascosto di questo "servizio" che viene "pagato" quando ormai è troppo tardi per capire quanto sia alto.

Editoriali 23_02_2020

Due donne inglesi. Una violentata e costretta ad abortire dallo Stato senza il suo consenso e la seconda istigata a fare lo stesso con la figlia in grembo malata. Due storie diverse ma accomunate da una mentalità comune che in Gran Bretagna spicca con chiarezza cristallina: rimuovere la sofferenza, costi quel che costi. E sta proprio qui l’inghippo, nel prezzo nascosto di questo "servizio" che viene "pagato" ormai troppo tardi per capirne l’immenso costo.

Vediamo infatti cosa è successo alla prima donna. A raccontarlo è stato Lifesitenews, che spiega attraverso le parole della Society for the Protection of Unborn Children che «una donna, di cui si è capito avere le capacità mentali di una bambina, non può acconsentire a fare sesso perciò non può consentire all’aborto». Eppure, nonostante avesse già subìto una violenza atroce dalla persona che si doveva prendere cura di lei (un cosiddetto "care giver") invece che essere aiutata a superarla è stata costretta a subirne una peggiore: l’omicidio in grembo del suo bambino. Non è la prima volta che lo Stato inglese decide di far abortire qualcuno pensando di rimuovere la sofferenza eliminando la vita che la porta con sé, ma in realtà non facendo altro che incrementarla: altre volte infatti donne con disabilità mentali sono state fatte abortire senza consenso, invece che permettere loro di abbracciare i loro piccoli per poi magari, in caso di impossibilità a crescerli, darli in adozione a famiglie che si sarebbero potute prendere cura di loro. 

Tuttavia, a far capire che l’unico modo per far si che chi viene violentato possa superare il trauma è quello di dare alla luce una vita, sono le diverse testimonianze di donne che hanno partorito comprendendo che quell’atto malvagio aveva comunque dato frutto ad un miracolo. Prendiamo ad esempio l’americana Kristi Kollar, violentata a 17 anni che ha più volte ribadito: «Nel momento in cui l'ho vista (sua figlia, ndr), il dolore precedente dei nove mesi è del tutto scomparso. Credo davvero che se non avessi avuto Abby, non sarei stata capace di guarire dall’aggressione. Era ed è la luce e lo scopo della mia vita».

La seconda vicenda è invece stata riportata dal The Sun. Una giovane mamma racconta al quotidiano inglese di quando fu diagnosticata la malattia della sua bimba in grembo: spina bifida. I medici le avevano detto che sicuramente non sarebbe sopravvissuta e che quindi era meglio sbarazzarsene. La giovane e il marito all’inizio erano tentennati e si sentivano in colpa ma poi si erano convinti «che fosse la cosa migliore» per la figlia. Subendo l’opinione comune per cui è meglio elimare una vita piuttosto che accoglierla malata. Così la donna si era sottoposta all’aborto alla 25esima settimana, quando un bambino può sopravvivere anche fuori dal ventre materno. La procedura consiste nell'iniettare in utero un liquido letale. Una volta conclusa, però, la giovane aveva comunicato all’ostetrica di aver sentito la sua piccola scalciare. “Impossibile!”, era stata un’altra volta la risposta del personale sanitario. Invece, anziché partorire un cadavere, la donna aveva dato alla luce la sua piccola viva e piangente. A quel punto i medici, anziché accogliere la nascitura e sostenerne la vita, avevano logicamente lasciato che la bambina morisse fra le braccia della madre. Ora la donna sostiene di non avere pace e che non sarebbe dovuto avvenire quanto accaduto.

Certamente questo secondo fatto svela l’ipocrisia dell’aborto, per cui finché resta nascosto in pancia si può far credere che un bambino non sia tale. Ma una volta nata e sopravvivissuta alla procedura, la piccola ha gridato che il re era nudo: che l’aborto è un omicidio e che non si sa mai con cetezza quanto una vita malata possa proseguire. Sua madre non saprà mai quanto avrebbe vissuto la neonata se non avessero provato ad ucciderla, in ogni caso ha ricevuto le condoglianze dallo stesso personale medico che ha cercato di far fuori la sua bambina per poi lasciarla morire.

Quello che resta è un dolore immenso che questa mamma si porterà per sempre nell'anima. Mentre se avesse scelto come fece la serva di Dio Chiara Corbella, oggi ricorderebbe il giorno della nascita di sua figlia sempre con sofferenza ma anche con tanta pace nel cuore. Chiara, infatti, non pensò nemmeno per un momento ad abortire la piccola Maria Letizia (nata senza scatola cranica), convinta che dovesse accompagnare la sua bimba per tutto l’arco della vita che le sarebbe stato concesso. Il giorno della nascita fu una festa, la piccola rimase qualche ora fra le braccia dei suoi genitori, ricevette il battesimo e salì al cielo circondata dall’amore. Disse quindi Chiara durante una testimonianza: «Se avessi abortito, non penso che avrei ricordato quel giorno come giorno di festa. Invece ricordo la gioia di quel giorno quando è nata». Sì la gioia. Così come Kristi parla di una luce in mezzo al buio dello stupro, venuta dal mettere al mondo la sua Abby.

Questi fatti chiariscono non solo la brutalità dell'omicidio dei figli, ma anche l’inganno di una mentalità edonista che fa pensare che la sofferenza non sia da contemplare. Perciò, se si presenta, va eliminata in ogni modo. Ma soprattutto queste vicende fanno capire che chi prova a debellare la sofferenza ad ogni costo si ritrova nella disperazione. Infatti, poiché essa è di fatto ineliminabile dalla vita per cancellarla si deve far fuori anche la vita che la porta.

Così, la prima madre oltre a dover portare su di sé le conseguenze della violenza carnale dovrà anche sopportare il dolore di un figlio ucciso e strappato dal suo utero (che disabilità o  meno, ogni madre non può che sentire), mentre la seconda oltre al dolore della malattia della figlia dovrà convivere con il fatto che quella piccola ha vissuto e sarebbe potuta vivere magari di più mentre lei ha acconsentito a provocarne la morte.

Così è. Perché che il tentativo di eliminare la sofferenza sia fonte di mali peggiori è una legge della vita che vale per tutti. Anche se chi può comprenderla ancora meglio sono i cristiani, il cui Dio per vincere la disperazione ha dovuto bere il calice amaro della passione e abbracciare la croce, mostrando a tutti, che, da quel momento, ogni sofferenza offerta a lui, anziché fonte di morte sarebbe diventata fonte di vita. Lo dice Chiara e lo dice anche Kristi: accettare il dolore pur di accogliere le vite che lo portavano con sé ha regalato loro luce e gioia.