Aborto e obiezione, dove sta il male
Il caso della giovane donna che ha abortito al quinto mese di gravidanza e ora denuncia l'assenza di assistenza medica, impone una riflessione sull'aborto. Oltre che su una cultura eugenetica che si sta impossessando delle coscienze.
Il caso della giovane donna che ha abortito al quinto mese di gravidanza dopo che al proprio figlio era stato diagnosticata la trasmissione di una malattia genetica di cui la madre è portatrice è stato utilizzato, e non nutrivamo alcun dubbio, come piattino per servire il trittico riproduttivo: sì alla fecondazione artificiale per tutti, l’aborto è un diritto, i medici obiettori sono dei perfidi opportunisti che dovrebbero essere radiati. Che gli interessati abbiano atteso quattro anni per sporgere denuncia è cosa strana, che però risulta più comprensibile leggendo la versione dell'Ospedale in cui si smentisce la ricostruzione dei fatti comunicata ai media con la solita impeccabile regia radicale. A titolo di esempio in conferenza è stato maliziosamente insinuato che la signora sia stata abbandonata a se stessa perché "era cambiato il turno, c'erano solo medici obiettori", ma l'azienda sanitaria ha ribattuto in una nota ufficiale che "dalla lettura dei documenti sanitari agli atti risulta che la signora è stata assistita, durante la degenza, da due medici non obiettori di coscienza che fanno parte dell’équipe istituzionalmente preposta alla IVG". A quanto pare dunque, carta canta, ma che vuoi che contino i fatti quando l'obiettivo è fare vincere l'ideologia?
Va da sé che il dolore dei protagonisti di storie di questo genere richieda grande rispetto, ma le circostanze di un evento, quantunque tragiche, non possono mai essere tali da trasformare la natura delle azioni: un male è un male. E un caso come questo, a prescindere dalla sua veridicità ad oggi tutta da appurare, offre lo spunto per una riflessione generale sui mali avvenuti e i mali auspicati. Il primo male è senz’altro quello dell’aborto che nel secondo trimestre è attuato per motivazioni eugenetiche in modo pressoché seriale attraverso protocolli di diagnosi prenatale sempre più sofisticati. L’infanticidio che a Roma era legalmente protetto dallo ius vitae ac necis assicurato al pater familias, oggi lo si garantisce in sicurezza e privacy alla mater foeti anticipandolo semplicemente di qualche mese grazie alle leggi abortiste di cui la 194 è espressione adamantina.
Un secondo aspetto è quello dell’assistenza alla donna che abortisce. A differenza dell’aborto chirurgico, la procedura farmacologica non si riduce ad un evento, ma si articola in varie tappe che insieme costituiscono il processo di aborto. È stato dichiarato in conferenza stampa che “la legge prevede che il medico possa rifiutarsi di iniziare la procedura, ma non di portarla a termine”. Errato, la legge all'articolo 9 esonera il personale obiettore da qualsiasi procedura ed attività volta a determinare proprio l'interruzione della gravidanza, cioè l'aborto, mentre obbliga lo stesso personale solo all'assistenza della donna prima e dopo la procedura. Non è scritto da nessuna parte che i medici obiettori debbano portare a termine, cioè a compimento, l'aborto, tranne nei casi, dice ancora la legge, in cui il loro personale intervento sia "indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo". Poiché si spera che qualcuno sappia ancora leggere l’italiano ciò significa che l’obiezione di coscienza deve quindi recedere non in caso di pericolo per la salute, ma solo in caso di pericolo per la vita, un pericolo che deve essere non futuro, ma imminente. Se è quindi doveroso per qualsiasi medico, compreso il medico obiettore, assistere la donna che sta abortendo in tutti quegli aspetti che riguardano la sua persona, è altrettanto moralmente doveroso per il medico che voglia servire solo la missione della medicina, salvare vite umane, astenersi da ogni azione volta a indurre la morte del bambino. La somministrazione di analgesici a una donna che sta abortendo è assistenza che non pone problemi morali, mentre cosa moralmente illecita è invece effettuare il cosiddetto mini-parto, la tecnica con cui è attuato l’aborto del secondo trimestre. Se ad esempio il neonato esce dal canale del parto ancora vivo e la placenta è ancora adesa alla parete uterina, sarà il clampaggio del cordone ombelicale a slatentizzare l’insufficienza ventilatoria connessa all’immaturità polmonare del bambino ed in sostanza sarà stato quel medico a completare la filiera di morte avviata dal collega che ha prescritto le candelette di prostaglandine per indurre il mini-parto, a meno che questo non sia l’unico modo per avviare la rianimazione neonatale.
Si dice anche che si dovrebbe consentire l’accesso alla fecondazione artificiale e la diagnosi genetica pre-impianto per i casi come questo in cui c’è il rischio di trasmettere al figlio una malattia genetica ed essere poi “costretti” ad abortire. C’è qualcosa di stonato in tutto questo, "costretti"? È un'espressione che ha un che di spaventoso tanto è sintomatica di come la mentalità eugenetica che fu sconfitta nella sua spaventosa presentazione totalitaria, ha stravinto rivestendosi semplicemente degli abiti libertario e umanitario, laddove con questo termine si deve qui intendere lo stesso atteggiamento di falsa pietà, di preoccupante perversione della pietà, che in Evangelium vitae il beato Giovanni Paolo II attribuiva all’eutanasia (EV 66). Si dimentica infatti di dire che mediante la diagnosi genetica pre-impianto si replicano gli stessi atti della diagnosi prenatale semplicemente anticipandoli nel tempo: prelievo citologico, esame genetico, responso di vita o di morte; l’esito del referto per l’embrione appena prodotto così come per il bambino in utero è sempre lo stesso pollice rivolto in alto o in basso. Poiché il termine aborto etimologicamente significa "non nato", la diagnosi genetica pre-impianto è un aborto al microscopio al di fuori del corpo della donna, è cioè un micro-aborto ectobiotico eugenetico. È proprio l'infiltrazione pervasiva nel tessuto sociale di questa cultura eugenetica che rende la certificazione circa il grave rischio per la salute della donna necessario per abortire oltre il novantesimo giorno una sorta di atto dovuto. In un contesto dove si producono linee guida anche per stabilire la condotta nella sindrome influenzale, a 36 anni dall’entrata in vigore della 194 nessuno ha mai neppure tentato di elaborare protocolli per la valutazione omogenea del rischio psichico di queste donne. Se ve ne fosse bisogno ciò rappresenta un motivo in più per sospettare che al legislatore abortista la salute della donna serva solo come pretesto, uno spesso strato di belletto buonista per nascondere la putredine dell’arbitrio utilitarista o edonista.
Ancora un’ultima questione. Quello che in questo caso è stato denunciato come abbandono della donna causato dalla latitanza dei medici obiettori, quell’essersi trovata ad abortire in bagno da sola con l'unica assistenza del marito, è esattamente la stessa cosa che si verifica in modo sistematico per l’aborto del primo trimestre con la RU 486 in day hospital. Anche lì infatti, dopo la somministrazione del misoprostol, una prostaglandina, la donna abortisce in bagno tra contrazioni dolorosissime, conati di vomito e diarrea. Solo che in quel caso il caravanserraglio abortista non parla di abbandono, non parla di malasanità, di omissione di atti di ufficio, tutto questo come per magia diventa un provvedimento per il comfort e la privacy della donna, ovviamente assicurato dal "buon medico", quello che non obietta.