A Istanbul si torna a votare, perché aveva perso Erdogan
A Istanbul si torna al voto, dopo la clamorosa sconfitta subita dal candidato dell’Akp, il partito islamico di Erdogan. La commissione elettorale suprema (Ysk) lo ha deciso, con un voto molto sofferto che è giunto come una doccia fredda sul partito di opposizione Chp. E la Turchia torna a spaccarsi. Si tratta di un ennesimo esempio di come Erdogan controlli il paese in modo sempre più autoritario.
A Istanbul si torna al voto, dopo la clamorosa sconfitta subita dal candidato dell’Akp, il partito islamico di Erdogan. La commissione elettorale suprema (Ysk) lo ha deciso, con un voto molto sofferto che è giunto come una doccia fredda sul partito di opposizione Chp. E la Turchia torna a spaccarsi.
La seconda città turca (la prima per importanza economica, storica e culturale) era stata al centro dell’attenzione nelle ultime elezioni amministrative del 31 marzo. Il candidato islamico dell’Akp, Binali Yldirim ha perso per un soffio contro il candidato del Chp, partito di ispirazione socialdemocratica: Ekrem Imamoglu. Su una popolazione di 14 milioni di abitanti, Imamoglu aveva vinto per 14mila voti. Era riuscito, anche così, a galvanizzare l’opposizione, che nel frattempo espugnava anche la capitale Ankara e il porto egeo di Smirne. Era la dimostrazione che Erdogan non fosse invincibile, neppure nelle città più importanti della Turchia, nonostante tutti i media, nazionali e locali, fossero palesemente sbilanciati a favore dei candidati dell’Akp.
Ma adesso, a Istanbul, la città simbolicamente più importante, la marcia dell’opposizione è stata repentinamente interrotta da una decisione presa da 7 giudici contro 4, dunque dalla maggioranza dell’Ysk: voto annullato, l’elezione del sindaco di Istanbul si deve rifare il prossimo 23 giugno. Sin dal giorno delle elezioni e soprattutto dopo il 17 aprile, quando Imamoglu aveva fatto ricorso, si era infittita la polemica sulla regolarità del voto. Il partito Mhp, laico, nazionalista, ma alleato dell’Akp, aveva denunciato 40mila nomi in più nelle liste elettorali, nomi di persone che non avrebbero avuto diritto di voto. L’Akp, dal canto suo, aveva denunciato l’irregolarità nel conteggio dei voti, discrepanze tra elettori registrati e numero di voti espressi, l’illiceità dei funzionari che svolgevano il ruolo di presidenti di seggio e presunti legami fra funzionari coinvolti e Fethullah Gulen (accusato di aver organizzato il fallito golpe del 2016). L’accusa di “gulenismo” è ormai buona per tutti gli avversari di Erdogan. Il risultato, il verdetto dell’Ysk e il ritorno alle urne ha suscitato una forte impressione nell’opinione pubblica.
Lunedì, centinaia di persone sono già scese in strada a Istanbul, suonando le pentole (come si usa nelle proteste in America latina e in tante altre parti del mondo), contro la decisione della commissione elettorale. Il Chp ha indetto una riunione dei suoi vertici, alla fine della quale ha deciso di ricandidare Imamoglu. Ora è lui che sta diventando la figura trainante dell’opposizione: “Tutti i democratici turchi si uniscano per salvare la democrazia della Turchia”, recita il comunicato del Chp. Secondo il suo leader, Kemal Kilicdarolgu, “i giudici devono vergognarsi” della decisione presa. “Non c'è un altro esempio nella nostra storia in cui lo stato di diritto, la giustizia, la politica onesta e la stabilità economica sono stati sacrificati in nome delle ambizioni personali e delle paure di un solo uomo”.
Al fianco del Chp, questa volta, si schierano anche tutti i principali governi europei. Il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Mass, definisce “incomprensibile” la decisione di rifare il voto. Critiche anche dal governo francese. E per Guy Verhofstadt, il dialogo per l’accesso della Turchia all’Ue diventa “impossibile”. Ma ad Erdogan interessa ancora l'accesso all'Unione Europea? Stando a quanto ha detto e fatto almeno negli ultimi dieci anni, parrebbe proprio di no. Parlando al suo partito, ieri, il presidente turco ha definito la decisione della commissione elettorale come “un passo nella giusta direzione”. Ha ribadito che il risultato delle elezioni a Istanbul fosse illegale e dunque votare di nuovo “è un passo importante per rafforzare la nostra democrazia”.
Si può parlare di un normale processo di controllo democratico? In quest’ultimo mese, sull’Ysk si è concentrata una pressione politica e mediatica enorme, anche lo stesso presidente Erdogan è intervenuto a gamba tesa nel dibattito, a favore dell’Akp. Non solo: la magistratura, che è quella che infine nomina i membri della commissione elettorale, non è più molto indipendente. Specie dopo la riforma costituzionale, è un organo controllato sempre più dal presidente. Il problema della Turchia non è tanto di assenza di democrazia, quanto di chi la controlla. Erdogan ha dimostrato ampiamente di saper prendere il potere senza clamore, occupando le istituzioni gradualmente. Prima ha preso il controllo della magistratura, poi ha usato la magistratura per colpire i magistrati non allineati e l’esercito (lo scandalo Ergenekon, presunto complotto contro Erdogan) e parallelamente ha preso il controllo dei media, punendo quelli non allineati. In questo modo, da presidente islamico, ha occupato quelli che erano i bastioni eretti, in quasi un secolo, a difesa dello Stato laico. Ora li presiede lui contro i suoi nemici laici, che ne son rimasti fuori. Nel 2016 questo processo ha conosciuto una brusca accelerazione, col pretesto del colpo di Stato fallito, per il quale è stato accusato l’ex alleato Gulen.
Erdogan, anche se nega la sua appartenenza ai Fratelli Musulmani, dimostra però di aver imparato bene la loro lezione politica, dunque l’occupazione graduale del potere tramite mezzi formalmente democratici, nascondendo e negando sempre l’obiettivo ultimo: la nascita di uno Stato islamico, teocratico, totalitario. Una strategia che è stata, a sua volta, mutuata da quella di Gramsci (occupazione delle “cittadelle”). Occorre però vedere quanto potrà rimanere legittimo un potere che gioca sempre più a carte scoperte e che, soprattutto dalla crisi dell’estate scorsa, non garantisce più quella crescita e quel benessere che finora l’hanno reso popolare in Turchia.