300 anni di Kant: la filosofia che impedisce di pensare Dio
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Per il filosofo di Königsberg si possono conoscere solo i “fenomeni” esterni, ma non la realtà in sé; si può risalire dalle cose al Creatore, ma non lo si può conoscere. Ne consegue la riduzione della fede a fideismo, separato dalla ragione.
Lo scorso 22 aprile ricorrevano i 300 anni dalla nascita del filosofo Immanuel Kant. In Germania non si contano le celebrazioni dell’evento, con il coinvolgimento di città e università. Anche in Italia i quotidiani più diffusi hanno dedicato molti interventi al pensiero del filosofo di Königsberg, generalmente favorevoli, qualcuno entusiasta e qualche altro leggermente critico ma non troppo, come nel caso di Marcello Veneziani. Anche Avvenire ne ha parlato con un articolo di Giuseppe Lorizio di sostanziale apertura della teologia cattolica alla filosofia kantiana e con una condanna del giudizio drastico su Kant espresso da Antonio Rosmini: «orribile abisso» (della filosofia). Lorizio elogia la Scuola di Lovanio che – con mons. Maréchal – voleva combinare Kant con san Tommaso. Operazione non solo pertinente ma anche riuscita, secondo lui, tanto da darci poi teologi come Karl Rahner, esito che può essere interpretato come la prova sicura del fallimento di quella operazione.
Il giudizio di Rosmini visto sopra era di età giovanile ma fu in seguito sempre confermato: secondo Rosmini la filosofia di Kant era da ritenersi atea, «perché se la ragione umana non può assicurarsi della verità assoluta ed oggettiva degli oggetti che le si presentano, non rimane più la possibilità di conoscere con certezza l’esistenza di Dio, divenendo anche Dio un’apparenza soggettiva». Dello stesso parere, per esempio, Sofia Vanni Rovighi o il domenicano padre Sertillange. Giudizi pesanti che dovrebbero ancora far pensare. La filosofia kantiana impedisce di pensare Dio. È vero che egli tenta un recupero di Dio come postulato della morale, ossia come qualcosa che bisogna ammettere perché altrimenti la morale rimarrebbe infondata, ma qui non si tratta di “conoscenza”.
Per Kant si possono conoscere solo i “fenomeni” e non le cose reali, oggettive, dotate di un loro essere indipendente dal soggetto conoscente. Cosa siano le cose in sé ci rimane sconosciuto, possiamo solo conoscere come le cose appaiono, appunto i fenomeni. Questo perché, secondo il filosofo tedesco (si può chiamarlo così anche se oggi Königsberg, l'attuale Kaliningrad, è in territorio russo), l’oggetto del nostro conoscere si forma mediante i dati sensibili più alcune modalità di conoscere già presenti a priori nel nostro intelletto. Per questo le conoscenze sono sempre anche una nostra rappresentazione. Ne consegue che non essendo Dio un fenomeno, in quanto non ne abbiamo alcun dato sensibile, non è conoscibile dalla ragione umana nemmeno per la sua esistenza. Il principio di causalità, secondo il quale si può risalire dalle cose al Creatore secondo Kant può essere applicato solo per i dati di esperienza, ma non per il piano trascendente. Le conseguenze in campo teologico sembrano evidenti a partire dalla separazione tra ragione e fede, conseguenza del rifiuto della metafisica come passaggio dal fenomeno al fondamento.
Uno dei punti deboli del pensiero moderno è, come noto, l’assolutizzazione del sapere scientifico. Anche Kant si innamora di questo principio, anzi è da considerarsi come il suo fondatore, confermandosi come il campione dell’Illuminismo. Solo la scienza è un vero sapere. Ci aveva già provato Cartesio assumendo il modello della geometria, Kant intendeva completare il percorso assumendo come modella la fisica di Newton. Non che con ciò gli altri ambiti non abbiano valore, solo che non sono una forma di sapere. Le disastrose conseguenze di questo punto sono davanti agli occhi di tutti. Quando, in seguito, la scienza stessa avrebbe ripudiato questa visione di sé come sapere assoluto, l’uomo avrebbe perso anche quest’ultimo vestigio del sapere e sarebbe caduto in uno smarrimento, per ridirla con Rosmini, abissale. La scienza aumentava il suo potere strumentale ma non aveva più alcuna ragione fondata per orientare delle scelte veramente umane. Perfino un kantiano doc come Jürgen Habermas dovette ammettere – contro Kant – il bisogno di assumere, seppure come finzione ipotetica, l’esistenza di una natura umana per fronteggiare i gravi pericoli della biopolitica.
Nel linguaggio comune Kant è spesso ridotto a slogan: “il cielo stellato sopra di me e la morale in me”, “trattare gli altri come fini e non come mezzi”, “istituire la pace perpetua”. Quest’ultimo è il più adoperato nelle commemorazioni di questo 300° anniversario, data la situazione internazionale corrente. Ha anche il valore di uno slogan privo di fondamento vedere una identità tra la morale kantiana e la morale cattolica. Anche Dignitas infinita, al n. 13, cade in questo equivoco, e Giuseppe Lorizio considera “evangelica” la proposta kantiana per una pace universale. Se evangelico sta per cattolico la cosa non è proponibile, se evangelico sta per protestante allora forse sì.
Quasi nessuno degli interventi celebrativi ha ricordato la fede pietista di Kant che, come spiegata Max Weber in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, intendeva la fede cristiana come coincidente con le buone pratiche della vita morale, considerando tutto il resto come “magia”. Ricordare il pietismo di Kant permette di gettare una luce inquietante sulla sua visione della morale – solitamente tanto esaltata – e sulla fede ridotta a morale. Di tutte le opere di Kant, il cattolico dovrebbe rileggere soprattutto La religione nei limiti della sola ragione del 1793. Capirebbe così che Kant riduce la fede a buone pratiche mondane. Egli diceva di aver voluto limitare la ragione per dare spazio alla fede. Ha certamente dato spazio al fideismo, ma non alla fede, né alla morale: private entrambe di una realistica ragionevolezza.
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