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LIBIA

25mila mercenari, Gheddafi ringrazia il Ciad

Il Paese nordafricano è a ferro
e fuoco, il petrolio rincara ogni giorno
di più e l'ineffabile WikiLeaks ci parla di una rissa per la Coca-Cola.

Attualità 03_03_2011
Muhammar Gheddafi

 

La resistenza del colonnello Muhammar Gheddafi si fonda sull’uso strategico di truppe mercenarie. Si tratta di circa 25mila effettivi, retribuiti i soldati con 300 dollari al giorno e gli ufficiali con cifre quotidiane comprese tra i 2mila e i 2500 dollari. Anzi, petroldollari, visto che per liquidare gli onorari delle loro prestazioni il raìs attinge alla rendita garantita dall’oro nero. Lo afferma il portavoce della Lega libica dei diritti umani, Ali Zeidan, che avvisa: i mercenari in Libia «non sono stati ancora tutti dispiegati. Sono guidati da due generali del Ciad, che rispondono agli ordini dell’ambasciatore del Ciad in Libia, Daussa Deby, fratello del presidente del Ciad Idriss Deby». Oltre che dal Ciad, riferisce Zeidan, i mercenari proverrebbero anche da Niger, Mali, Zimbabwe o Liberia.

Intanto Tripoli, il 1° marzo, è stata sospesa, con decisioni unanime, dal Consiglio dei i diritti umani delle Nazioni Unite, anche se molti continuano a chiedersi cosa vi stesse a fare in quell’assise, e comunque perché si sia atteso tanto per estrometterla. Anche perché davanti a quel Consiglio, il giorno prima, il 28 febbraio, è intervenuto il Segretario di Stato americano Hillary Clinton che pure, in qualche modo, nel rassicurare la “piazza” in rivolta contro Gheddafi di cui ha condannato la violenza repressiva, non ha teoricamente escluso nemmeno l’impiego della forza. Del resto, proprio mentre giungeva la sospensione della Libia, la Casa Bianca spostava due navi da guerra dal Mar Rosso al Mediterraneo: la Ponce e la Kearsarge, due portaelicotteri equipaggiate con mezzi anfibi da sbarco e almeno 800 marine l’una. Percorso inverso pare stia invece facendo la portaerei Uss Enteprise. Il 15 febbraio lasciò il Mediterraneo per il Mar Rosso e ora starebbe pattugliando quelle acque per non lasciare sguarnito il Golfo Persico mentre le navi iraniane inviate da Teheran nel Canale di Suez giorni fa stanno rientrando. Washington presidia del resto il Mediterraneo attraverso la VI Flotta, che ha base nel porto di Napoli, con forze però piuttosto ridotte e logorate da anni di guerra in Iraq e Afghanistan.

Il Pentagono si tiene insomma pronto, ma sa bene che per ora l’eventualità di un intervento militare americano in Libia non gode del consenso della Nato. Per questo il Segretario della Difesa statunitense, Robert Gates, che ha incontrato la stampa assieme al capo degli Stati Maggiori Congiunti delle forze armate americane, ammiraglio Mike Mullen, ha parlato semmai d’intervento umanitario. Per Gates sarebbe «straordinariamente» complicato anche istituire una no fly zone sui cieli del Paese nordafricano, tant’è che il 2 marzo l’Onu si è detta disponibile - lo ha affermato all’emittente televisiva araba Al Jazira il viceambasciatore libico al palazzo di Vetro, Ibrahim Dabbashi, uno dei primi diplomatici di Tripoli a dimettersi denunciando il regime di Gheddafi - a  elaborare una risoluzione in tal senso solo se a domandarlo fosse il Consiglio nazionale dei rivoltosi libici.

Nell’affaire libico fronte caldissimo rimane quello energetico. Ieri a New York i future sul greggio con scadenza ad aprile hanno chiuso con un rialzo di 2,54 dollari, pari al 2,6%, giungendo a quota 102,2 dollari al barile. Da metà febbraio, quando sono cominciate le manifestazioni antigovernative nel Paese che detiene le maggiori riserve petrolifere del mondo, i listini della Grande Mela hanno segnato un aumento di 17 dollari al barile, ossia del 19%, e il prezzo al dettaglio è aumentato di 25 centesimi al gallone. Stando al governo di Tripoli, la produzione nella regione orientale del Paese sarebbe calata di almeno il 50% dall’inizio delle rivolte, ma secondo alcuni analisti internazionali il dato potrebbe essere molto maggiore; non si esclude infatti che in alcuni distretti la produzione petrolifera sia completamente ferma. Ciò complica le cose per gli Stati Uniti, aumentandone preoccupazioni e magari pure smanie, dal momento che l’attuale domanda di greggio di Washington, atta a sostenere la ripresa economica, sta crescendo enormemente, così come pure cresce l’esborso diretto dei cittadini: mediamente stanno pagando 94,9 milioni di dollari al giorno in più per la benzina. In Europa intanto il petrolio quotato a Londra è salito del 13%: la Libia, infatti, producendo in condizioni normali circa 1,6 milioni di barili al giorno, copre il 2% del fabbisogno mondiale e ne destina la maggior parte proprio al Vecchio Continente.

Né poteva mancare Julian Assange. Dai cassetti di WikiLeaks è infatti spuntato un inedito dispaccio diplomatico statunitense risalente al 2006 in cui si racconta di come Coca-Cola rimase un dì coinvolta in una disputa familiare scoppiata tra due dei figli di Gheddafi,  Mohammed e Mutassim. I due litigarono di brutto a proposito di una fabbrica locale per l’imbottigliamento della bevanda dall’ingrediente “segreto” e la cosa passò poi a vie di fatto. «Hai presente il film Il Padrino? È quello che stiamo vivendo negli ultimi mesi», dice nel dispaccio un imprenditore a un funzionario della missione diplomatica statunitense a Tripoli.

La fabbrica in questione era stata occupata da fedeli di Mutassim, che ce l’aveva con Mohammed, e così l’impianto restò chiuso per tre mesi. I diplomatici americani protestarono con il governo libico. Poi Mohammed, forse ispirato dalla sorella Aisha, si accordò per vendere a terzi le quote della Coca Cola, possedute del Comitato olimpico libico da lui guidato. Così i partigiani di Mutassim lasciarono la fabbrica e la cosa si dissipò come neve al sole, anche se i dipendenti ebbero il tempo di ricevere minacce di aggressioni e un cugino di Gheddafi venne picchiato e rapito. Probabilmente avremmo dormito sereni anche senza saperlo, ma così è.