25 aprile, i cinque volti della Resistenza. L'eroismo dei militari
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Serve ricordare la Resistenza, oltre la vulgata antifascista militante che cancella ogni altra memoria del 25 aprile. Un saggio in sei parti, a partire dalla resistenza in grigioverde: i soldati italiani che non si arresero ai nazisti dopo l'8 settembre.

Ogni anno, ogni 25 aprile, si aprono le gabbie su giornali e televisioni e iniziano risse verbali al confronto delle quali la battaglia delle arance nel carnevale di Ivrea è un esempio di compostezza e di stile. E così, ottant’anni dopo la Liberazione, il gusto degli italiani di mandare al macero ciò che avevano idealizzato (sbagliando) fino a pochi decenni prima si perpetua perché, secondo il noto adagio pubblicitario “ciò che continua a piacere diventa tradizione”.
A fronte di questa pochezza esiste la storia della Resistenza. Complessa, caotica, contraddittoria ma da cui emergono figure come quella di Paola Del Din, ultima medaglia d’oro al valor militare vivente e che, a 102 anni, ama incontrare i giovani e parlare loro con lo slancio dei vent’anni. In una recente videoconferenza con ragazzi di terza media di una scuola di Desio la professoressa Del Din ha detto: «Non so se vi rendete conto di cosa significa la ricchezza spirituale. Abbiamo avuto dietro di noi delle storie gloriose di gente che ha combattuto per un ideale. E quello vi dà forza nell’animo, vi dà forza di resistere anche quando magari state facendo un compito che non vi riesce bene e sapete che bisogna aver forza. Quindi resistete e pensate a chi è stato coraggioso. Perché non siete voi soli al giorno d’oggi. Tutta la storia che avete alle spalle è vostra. Nella vostra esistenza ci presenteranno sempre dei problemi ma bisogna superarli. Qualsiasi problema è risolvibile: basta avere il coraggio e la forza e sapere che si deve lottare».
Paola Del Din è l’ultima rimasta di 603 uomini e donne decorati con la medaglia d’oro al valor militare, quasi tutte alla memoria. Dall’esame delle loro storie emergono, a volte, narrazioni fasulle (in almeno cinque casi accertati) o conferimenti a personaggi accusati di crimini feroci (altri quattro) ma si comprenderà che non è il caso di buttar via quasi seicento storie per nove false o discutibili. Da questo esame risulta anche che ben 421 di questi decorati avevano partecipato al secondo conflitto mondiale, 23 alla guerra d’Etiopia e 11 a quella di Spagna dalla parte dei franchisti mentre altri quattro avevano partecipato a tutte e due queste guerre fasciste.
E così comincia a zoppicare vistosamente la narrazione che vuole la Resistenza indissolubilmente legata all’antifascismo militante nel senso che centinaia di migliaia di italiani che avevano fatto le guerre del duce si sono ritrovati a combattere contro i nazifascisti.
Un grande storico, nonché partigiano, come Raimondo Luraghi individuava almeno quattro resistenze
- Quella dei militari dopo l’8 settembre (Roma, Cefalonia, Lero, Albania ecc.)
- La resistenza degli internati militari Italiani (I.M.I)
- L’esercito del sud
- Il partigianato
A queste quattro resistenze va aggiunta una quinta, fondamentale: quella disarmata, della carità verso i perseguitati, gli ebrei, i disertori, i fuggiaschi.
Vi sono, quindi, almeno due motivazioni ideali dei resistenti di cui bisogna prendere atto e che, confrontate con quella puramente politica, appaiono preponderanti: quella dell’onore militare e quella della Carità, per lo più cristiana, praticata da gran parte del clero.
A fronte di tale fenomeno l’idea che la Resistenza, secondo una vulgata fascista “Sia stata fatta da chi è salito sul carro del vincitore” appare priva di senso. Cosa si deve allora pensare del sottotenente Ettore Rosso che, inviato a minare una strada a Monterosi alle quattro di notte del 9 settembre 1943 si lanciò su una mina con tutto il peso del proprio corpo e la fece esplodere, provocando la deflagrazione di tutto il convoglio e polverizzando anche la testa della colonna tedesca? Di quali vantaggi ha goduto il generale don Ferrante Gonzaga del Vodice che, all’intimazione di resa nei pressi di Salerno, sempre quell’8 settembre, rispose: “Un Gonzaga non si arrende mai!” venendo subito falciato da una raffica di mitra nazista?
La sera dell’8 settembre si scontrarono due necessità: quella dei tedeschi di disarmare l’esercito italiano e quella dei militari italiani che intendevano obbedire agli ordini ricevuti (per quanto ambigui) resistendo a qualunque attacco. Ciò che fu indegno nel comportamento tedesco fu il considerare ribelli tutti gli ufficiali che sceglievano di resistere e di fucilarli senza alcuna pietà. Va considerato che tale comportamento criminale avvenne soprattutto all’estero, in Jugoslavia, in Albania e in Grecia fino ad arrivare allo sterminio di più di cinquemila soldati della divisione “Acqui” considerati ribelli. Non così in Corsica dove il generale tedesco Frido von Senger und Etterlin, uno dei migliori tattici di tutta la guerra, nonché cattolico e terziario benedettino, scelse di disobbedire all’ordine del Fuhrer di giustiziare gli ufficiali italiani e, con uno stratagemma, li fece imbarcare in fretta e furia, sottraendoli alla ferocia nazista, salvando anche la propria testa. Von Senger non obbedì agli ordini ma alla propria coscienza mentre quasi tutti gli altri ufficiali tedeschi dissero di aver obbedito alle direttive del Fuhrer fucilando i militari italiani che, a propria volta, obbedivano agli ordini del proprio sovrano.
In totale, dall’8 settembre al novembre 1943, data della caduta del caposaldo di Lero, nell’Egeo, caddero 20mila militari delle tre armi e altri 13mila morirono annegati nel siluramento delle navi che li trasportavano verso la prigionia. Le medaglie d’oro (MOVM) furono 88. La Resistenza dei militari prigionieri proseguì fino alla fine della guerra. Di 800mila catturati 94mila camicie nere optarono subito per il Reich e altri 100mila, fiaccati dalle privazioni, entrarono nell’esercito della Repubblica Sociale italiana, spesso per disertare non appena giunti in Italia. Dei 600mila rimasti ne morirono tra i 40mila e i 50mila e 4 furono decorati con la medaglia d’oro. Fu un sacrificio non abbastanza valutato ove si pensi quante divisioni avrebbero potuto mettere in campo i nazifascisti se questi 600mila avessero ceduto e si fossero arruolati. Tra di loro va ricordato almeno Giovannino Guareschi che, nel suo Diario clandestino narrò di quella terribile esperienza con l’umorismo suo solito. Quell’umorismo che descriveva i nazisti come “di una stupidità commovente” e che gli ispirò un grido di guerra non dimenticato: “Non muoio neanche se mi ammazzano!”