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LA STRAGE

Virginia, quando l'invidia supera il valore della vita

A tre giorni di distanza dalla strage in Virginia, si sono sviluppati ben tre dibattiti. Uno sulle immagini del primo delitto ripreso in soggettiva, dalla prospettiva della pistola. L'altro sul controllo delle armi. Ma resta senza risposta la domanda essenziale: perché? E la risposta è antica quanto la Bibbia.

BANALITA' SULLE ARMI di Rino Cammilleri

Educazione 30_08_2015
Vester Lee Flanagan II, il killer della Virginia

Armato di pistola e di videocamera frontale, l’ex giornalista Vester Lee Flanagan II ha assassinato gli ex colleghi Alison Parker (reporter) e Adam Ward (cameraman) mentre intervistavano la direttrice della camera di commercio della cittadina di Moneta, Virginia. Per due giorni abbiamo passato il tempo sui giornali e in Tv a cercare di capire il perché di questo duplice delitto in diretta, il primo in assoluto ripreso in soggettiva dalla prospettiva della pistola. 

Il dibattito ha preso subito tre direzioni differenti. La prima è sulla responsabilità della diffusione delle immagini, la seconda sulla necessità o meno di controllare la circolazione delle armi negli Stati Uniti, la terza è sulla natura della strage. Per quanto riguarda il primo dibattito, quello sulle immagini, la stragrande maggioranza dei media ha compiuto la scelta eticamente più corretta: se non altro per non dare soddisfazione al killer, (che voleva promuovere le sue gesta) è stato ovunque oscurato il video in soggettiva del duplice delitto. L’account Twitter di Flanagan è stato prontamente sospeso. Eppure, nell’era dei social network, milioni di curiosi hanno già potuto scaricare, sin dai primi istanti, il video dell’assassino ripreso in soggettiva. Quotidiani e televisioni ne hanno fatto vedere, comunque, qualche fotogramma. Il volto della reporter Alison Parker, deformato dal terrore dei suoi ultimi istanti di vita, è già entrato nella mente e negli incubi di telespettatori e lettori di quotidiani. Il serial killer, prima di suicidarsi, ha dunque raggiunto il suo obiettivo: diventare una star del male, rendere famoso il suo delitto, far sì che altri squilibrati possano emularlo, come lui stesso ha emulato l’assassino del Virginia Tech.

Il secondo dibattito, come rileva su queste colonne Rino Cammilleri, è infettato dai soliti luoghi comuni e pregiudizi sulle armi negli Stati Uniti. Luoghi comuni che vengono, almeno parzialmente, smentiti dai dati. Si dice troppo spesso che gli Usa siano il paese più violento del mondo, perché sono al primo posto nella circolazione della armi. E’ infatti vero che gli Usa, ad esclusione di paesi in cui si combattono guerre civili, siano al primo posto nel mondo per la circolazione delle armi fra privati cittadini. Ma non sono al primo posto nella classifica del tasso di omicidi. Su 192 paesi scrutinati dall’agenzia Onu Unodc, sono all’incirca a metà. Gli Usa non sono neppure i più violenti nel mondo industrializzato, perché fra i paesi sviluppati (classificati tali dall’Ocse) sono battuti da Cile, Russia, Messico e Brasile.

Finora abbiamo considerato il tasso di omicidi in senso lato (con ogni tipo di arma), perché non solo le armi da fuoco uccidono. Negli Usa, nel 2011, l’ultimo anno in cui è disponibile una statistica completa della polizia federale, i delitti sono stati circa 12mila. Di questi, la metà sono causati da pistole (6220), ma la seconda causa di morte violenta è il coltello: 1694 omicidi, oltre a 728 persone uccise a calci e pugni. Insomma, le armi da fuoco sono sempre le principali responsabili degli omicidi, ma la metà dei delitti viene compiuta con armi bianche, non controllabili con le norme sul “gun control”. Se si isola il singolo dato del tasso di omicidi commessi con armi da fuoco (e solo con esse) in tutti i paesi del mondo, neppure in questo caso troviamo gli Usa al primo posto. In cima c’è infatti un altro paese americano, l’Honduras, con 64,8 omicidi all’anno ogni 100mila abitanti. E’ seguito da Venezuela (50,9) e Salvador (46,9). Ai primi dieci posti troviamo solo paesi latino-americani (tranne due sudafricani), in cui la circolazione delle armi da fuoco è decisamente molto più controllata e regolamentata che negli Usa. Gli Stati Uniti sono al 13mo posto, con 10,6 delitti con armi da fuoco ogni 100mila abitanti. Ma anche qui non è un tasso uniforme, varia da stato a stato. Il District of Columbia (l’area della capitale) è al primo posto (16,5) ed è uno degli stati più proibizionisti; New Hampshire e Vermont, al contrario, sono fra gli stati più liberisti in assoluto e sono agli ultimi posti, con 0,4 e 0,3 omicidi rispettivamente. Non esiste una regolarità, anche in questo caso, perché ci sono stati più liberisti che sono anche molto violenti, come la Lousiana (seconda classificata, con 7,7 omicidi), ma in genere ai primi posti della classifica sulla sicurezza troviamo stati dove ci sono poche regole sulle armi e poca violenza. Poche regole sulle armi perché c’è poca violenza, evidentemente. E qui si capisce che la discussione sul “gun control” inverte i termini: gli stati che impongono più regole restrittive sono quelli che registrano i più alti tassi di violenza e nonostante tutto continuano ad essere più violenti della media. Quindi il numero di armi in circolazione legalmente, il livello di controllo, la facilità di reperire armi da fuoco, non sono direttamente correlati al livello e alla diffusione della violenza. Non ne costituiscono la causa.

Qual è la causa della violenza, allora? E’ lecito chiedercelo, perché gli Stati Uniti, anche se non sono il paese più violento del mondo, sono però un paese violento. Ed è soprattutto negli Usa che avvengono stragi tanto celebri quanto incomprensibili che trovano ben pochi imitatori all’estero. Il terzo dibattito, quello sulle cause, non troverà una risposta facile, proprio perché è afflitto da pesanti pregiudizi politici. La sinistra americana ha impiegato pochissimo tempo prima di individuare la causa della strage di Charleston lo scorso giugno: razzismo di un bianco sudista nei confronti dei neri che ha assassinato. Ma in questo caso, però, le vittime sono bianche e l’assassino è nero. E gay. E allora per la sinistra diventa un problema identificare una causa sociale e i media più inclini a Obama preferiscono parlare del “gun control”. I media di destra, al contrario, si sono gettati a capofitto sulla causa razziale. E ne hanno il diritto, perché il testamento del serial killer Flanagan è zeppo di riferimenti razziali e l’assassino si riproponeva esplicitamente di vendicare i morti della strage di Charleston. L’editoriale di Matthew Vadum, su Front Page Magazine, è l’esempio più lampante di come la destra americana stia ritorcendo le accuse razziali e ideologiche contro la sinistra: “Le masse di nazionalisti neri e i reduci della campagna di Occupy Wall Street, i teppisti che hanno messo a ferro e fuoco Baltimora e altre grandi città con l’incoraggiamento dell’amministrazione Obama, pensano che sia arrivato il momento di agire contro il paese che odiano. Il loro desiderio di far scoppiare un conflitto razziale di ampie dimensioni in America è rimasto un obiettivo coperto dalla sinistra istituzionale per decenni. Avviare una guerra razziale, in cui i neri si sollevano violentemente contro i bianchi, è un obiettivo di lungo periodo di terroristi mai pentiti, come l’amico di Obama Bill Ayers…”

“… Ma per l’omicida, quanto era importante la causa razziale in confronto alla sua bizzarra convinzione che i precedenti serial killer fossero dei modelli da seguire?” si chiede Jim Geraghty, della National Review, invitando i suoi colleghi di destra a non ripetere gli stessi errori della sinistra. Cioè a non politicizzare necessariamente ogni evento e a non attribuire cause sociali ad un’azione individuale. Geraghty punta soprattutto a dare una spiegazione psicologica alla tragedia: “Come altri serial killer, l’assassino virginiano ha iniziato col torturare gli animali, descrivendo l’uccisione del suo gatto in una foresta. Infine, l’omicida ha scritto che Jehovah gli aveva parlato e gli aveva ordinato di fare quel che poi ha fatto. Allucinazioni auditive, 'avere le voci', sono i sintomi più comuni della schizofrenia paranoide. In ultima istanza, è stata quella voce nella sua mente – scegliete voi, se considerarla come un fatto puramente psicologico, o un demone in senso letterale o metaforico – che ha costituito la maggior forza influenzatrice delle sue azioni”. Geraghty cita lo psicanalista Willard Gaylin, autore di Hatred: The Psychological Descent into Violence, per tratteggiare il profilo psicologico di Flanagan quale “collezionista di frustrazioni”: “al centro della visione del mondo del collezionista di frustrazioni c’è l’idea di non essere responsabili per la condizione della propria vita; c’è una vasta cospirazione di individui malvagi e forze oscure che sono interamente responsabili per le sue condizioni. C’è sempre qualcun altro a cui dare la colpa e l’omicida della Virginia ha rapidamente trovato il modo di giustificare le sue azioni, scaricando la responsabilità su altri”. Willard Gaylin specifica che: “Dietro a questa filosofia di vita, c’è una visione dell’esistenza rigidamente comparativa e competitiva. Tutto diventa parte di un gioco a somma zero”. Se a te manca qualcosa, sei convinto che la causa sia un altro uomo che ha troppo. Dal poco al tanto, è questa visione malata che ha armato la mano anche di tanti altri serial killer della storia americana, come lo stragista del Virginia Tech (che Flanagan citava) e gli autori del massacro della Columbine High School. Non tutti i frustrati sono omicidi, anzi sono pochissimi. Ma tutti gli stragisti sono studenti depressi e repressi, o professionisti falliti.

Senza scomodare la psicologia, i cristiani hanno diagnosticato da molto tempo questa malattia. Si chiama: invidia, uno dei sette peccati capitali. E’ per invidia che Caino ha assassinato Abele, il primo delitto del mondo. A frenare la forza dell’invidia pensa una forza di segno opposto: il rispetto della vita. Ma, culturalmente parlando, la vita inizia a non essere più un tabù, nemmeno nella cultura cristiana (o post-cristiana) occidentale. La vita non ha valore dal concepimento al parto e dei feti si può letteralmente fare carne da macello. La vita ha meno valore se, a vivere, è un “nemico di classe” o “di razza” nella lotta sociale continua. Perché tutte le filosofie progressiste, anche senza teorizzare l'esproprio o lo sterminio di classe, finiscono per dare legittimità morale all'invidia. Se mai si dovesse attribuire una colpa alla “società”, questa è proprio di non aver difeso saldamente il valore sacro e inviolabile della vita e di non averlo più inculcato nella mente delle persone, sin dalla primissima educazione. Una volta minato quel valore e annacquato quell’insegnamento, una mente malata e carica di invidia non ha più barriere culturali fra sé e la decisione di sbarazzarsi dei suoi presunti nemici. E sentirsi dalla parte del giusto, anche per un attimo, anche nel breve spazio di un piccolo video.