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REGNO UNITO

Vince la Brexit. L'Ue è tutta da rifare

Il popolo si è espresso: la Gran Bretagna è uscita dall’Unione Europea. Il referendum è stato vinto, di misura, dal fronte della Brexit. La notte più lunga, alla fine, ha dato questo risultato: 52% favorevole alla separazione, 48% contrario. Sconfitto il premier David Cameron. Sconfitta l'Unione Europea.

Esteri 24_06_2016
Torta per celebrare la Brexit

Il popolo si è espresso: la Gran Bretagna è uscita dall’Unione Europea. Il referendum è stato vinto, di misura, dal fronte della Brexit. La notte più lunga, alla fine, ha dato questo risultato: 52% favorevole alla separazione, 48% contrario. Per ironia della sorte, gli exit polls davano vincente il Remain con la stessa percentuale di voti e fino a mezzanotte (l’1, ora italiana) la sua vittoria pareva un fatto assodato. E così politici di entrambi gli schieramenti, politici di altri paesi europei, ambasciate e soprattutto gli operatori di Borsa erano andati a letto con la serenità dello status quo. I quotidiani, nelle loro prime edizioni, avevano titolato sulla permanenza di Londra nella famiglia europea. Ora le loro prime pagine sembrano appartenere a universi paralleli, entrano nella galleria degli errori storici, un esempio di come tutte le previsioni statistiche, anche le più solide, siano fallibili. O di come la speranza di molti (politici e giornalisti, soprattutto) si sia sovrapposta troppo a lungo alla cruda realtà.

La realtà è quella di un’Unione Europea che non riesce più a risultare un modello attraente e perde letteralmente i pezzi. Per quanto possa essere rassicurante l’appartenenza ad un mercato comune, con regole certe e libertà di circolazione, gli elettori britannici hanno preferito piuttosto il salto nel buio della separazione. Per i mercati, così come per le classi dirigenti europee è uno shock. Se ne dovranno fare una ragione.

Per il premier David Cameron si tratta di una sconfitta bruciante. Benché 84 parlamentari membri del suo partito conservatore, abbiano firmato una petizione affinché resti a capo del governo, ora le sue dimissioni appaiono molto probabili. Aveva promesso il referendum prima delle elezioni del 2015, quando la stessa vittoria conservatrice non appariva così scontata. Lo aveva fatto per sottrarre consensi al suo rivale più diretto, lo Uk Independence Party (Ukip) di Nigel Farage, la cui ragione di essere è sempre stata l’uscita dall’Ue. Ma lo aveva proposto anche e soprattutto per compattare la sua base. Perché il partito conservatore è sempre stato, sin dagli anni ’80 di Margaret Thatcher, favorevole al mercato unico europeo, ma contrario al progetto politico di Unione Europea. Il referendum sull’Ue era, per Cameron, un test ancora più duro rispetto al referendum sull’indipendenza della Scozia, una scommessa politica veramente ardua.

Eppure aveva impiegato tutte le sue ottime capacità di negoziatore per scongiurare la sconfitta. A febbraio aveva ottenuto da Bruxelles concessioni così ampie (fra cui l’uscita dal principio di una “unione sempre più stretta”) da rendere quasi superflua una Brexit. Proprio all’indomani di questo accordo, l’allora sindaco di Londra, Boris Johnson, è sceso in campo contro di lui, spaccando definitivamente la sua base. Allora nessuno gli aveva dato molto peso. Adesso è Johnson, assieme a Farage, colui che appare come il volto del futuro conservatorismo britannico, erede della Thatcher. A votare per l’Unione Europea è stata Londra, megalopoli cosmopolita governata da un sindaco di sinistra originario del Pakistan, l’Irlanda del Nord, che è, da un punto di vista politico, “un mondo a parte” e la Scozia, ormai a maggioranza indipendentista e tradizionalmente di sinistra. Non certo le aree conservatrici: quelle hanno tutte optato per la Brexit, a gran maggioranza, contro Cameron.

L’Ue è la prima e più importante sconfitta di questo referendum. Non si può dire che non ci fossero segni premonitori. Già Bruxelles aveva dovuto affrontare la tempesta (piccola, in confronto) della Grexit, la possibile uscita della Grecia. Non c’è stata, soprattutto perché è Atene a dover dipendere dagli aiuti della Troika ed è a Bruxelles che si potrebbe decidere per la sua espulsione. La Gran Bretagna, un paese contributore netto, ha avuto libertà di scelta e ha optato per l’uscita. Poi, appena un mese fa, a Bruxelles avevano tutti tenuto il fiato sospeso per le elezioni in Austria, dove ha perso di un soffio il candidato presidente nazionalista Hofer. E restano i grandi precedenti, come la bocciatura referendaria della Costituzione europea da parte di Francia e Olanda. Insomma, l’impressione è che ogni volta che un popolo europeo è chiamato alle urne, vota contro l’Unione Europea. Il sistema deve essere sicuramente rivisto da cima a fondo, sempre che non sia già troppo tardi.

Per ora il processo di integrazione europeo ha proceduto dall’alto in basso e con un metodo incrementale. Dall’alto in basso: sono le élite, elette solo indirettamente, che guidano i paesi membri verso un’unione sempre più stretta. In modo incrementale: ad ogni step di integrazione si crea una istituzione nuova che è la premessa di quella successiva. Istituzioni da cui è difficile, quando non impossibile, uscire. L’idea di fondo è quella della irreversibilità. E’ questo il modello che, alla prova dei fatti, non funziona. Come tutti i processi costruttivisti del passato, anche l’Ue ha preteso di dare un senso alla storia e lo ha sbagliato. Ora può forzare definitivamente la mano e creare uno Stato unico europeo, oppure ridare importanza al principio di sussidiarietà, iscritto nei Trattati. I britannici hanno chiesto più sussidiarietà, poi, non ottenendola, si sono staccati. La risposta dei governi continentali, per ora, è l’opposto. Lo si deduce anche dalle dichiarazioni pre-Brexit, come il presidente dell’europarlamento Martin Shulz che lamenta di non essere a capo di un vero parlamento federale, oppure il nostro ministro delle Finanze Padoan che parla dell’esigenza di “un maggiore sforzo di integrazione”. Il motto più in voga, di fronte a ogni situazione di crisi, finora è stato “più Europa”. Il che vuol dire, fuor di metafora, più centralismo europeo, un balzo avanti verso lo Stato unitario continentale. Ma se finora è stato proprio il centralismo la radice della crisi, che lezione hanno mai imparato le nostre classi dirigenti?