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CASO SIRI

Vince il giustizialismo, perde lo Stato di diritto

Conte, "l'avvocato del popolo" non eletto scarica l'eletto Siri mostrando ancora una volta di "tifare" pentastellato. Sul caso del sottosegretario vince il giustizialismo, garantismo al palo ancora una volta: i tempi della politica li detta la magistratura. Il patto di governo tra Cinque Stelle e Lega si è logorato e sarà difficile nascondere la polvere sotto al tappeto fino alle Europee. 

Politica 04_05_2019

Le modalità con le quali il sottosegretario alle infrastrutture Armando Siri verrà allontanato dal governo a questo punto hanno poca importanza. Che si dimetta “spontaneamente” o che il premier Giuseppe Conte dia seguito a quanto detto giovedì e gli revochi l’incarico con le procedure previste dalle leggi non è più rilevante. Bisogna analizzare la sostanza, cioè gli elementi del caso giudiziario e il movente politico che sta dietro l’evoluzione di questa vicenda. Soprattutto, occorre ragionare sui sempre più precari equilibri tra poteri, in particolare tra quello giudiziario e quello esecutivo.

Ciclicamente ci si augura che l’oscurantismo giustizialista lasci il posto a una positiva e matura evoluzione democratica del nostro Paese e che il garantismo liberale, sancito nella Costituzione italiana, riceva una puntuale e rassicurante applicazione. Invece, anche questa volta a prevalere sono altre logiche, qualificabili come degenerazioni del funzionamento del sistema democratico.

Nessuno sa se Armando Siri sia colpevole, se abbia davvero intascato una mazzetta di 30.000 euro per favorire gli interessi di un imprenditore nel settore delle energie alternative. Nessuno ha le prove che il sottosegretario abbia scientemente tentato di favorire interessi torbidi e contigui a quelli della criminalità mafiosa. Dev’essere la giustizia a stabilirlo. Nel frattempo, però, va detto che l’art.27 della Costituzione è molto chiaro nell’assicurare la presunzione di innocenza a tutti i cittadini italiani, anche a chi ricopre incarichi pubblici, proprio al fine di evitare che pezzi di potere giudiziario possano brandire l’arma di un avviso di garanzia per determinare improvvidamente scelte politiche legate alla selezione del ceto dirigente, calpestando la volontà popolare.

Siri ha chiesto di essere interrogato proprio per fugare sospetti su di lui, ma non ci sarà il tempo di farlo, perché entro una settimana, con le buone o con le cattive, dovrà togliere il disturbo.

Si tratta di un precedente pericoloso, che suggerisce alcune riflessioni. Anzitutto il credito incassato dalla magistratura che, dimostrando di dettare i tempi alla politica, ristabilisce la sua supremazia e tiene sotto schiaffo il governo e i suoi azionisti di maggioranza. Siamo tornati ai tempi di Tangentopoli quando bastava una raffica di avvisi di garanzia per decapitare un’intera classe politica. Se ci dovessero essere altri casi Siri, non si potrà agire diversamente e si confermerà questa sudditanza della politica alle toghe.

In secondo luogo, il logoramento del patto di governo, dopo questo braccio di ferro Lega-Cinque Stelle, si accelera. Nessuno dei due alleati vuole aprire la crisi in campagna elettorale, ma c’è da scommettere che queste scintille porteranno a una resa dei conti subito dopo il 26 maggio, anche in vista delle dolorose scelte di politica economica che chi sarà al governo nel secondo semestre dell’anno in corso dovrà assumere, vedi manovra finanziaria aggiuntiva.

Matteo Salvini è sollecitato dai suoi a rompere gli indugi e a far saltare il tavolo per consentire al Carroccio di ritornare nel suo alveo naturale, cioè l’alleanza di centrodestra che, peraltro, stando a tutti i sondaggi più accreditati, avrebbe i numeri per governare e per rispedire all’opposizione i grillini, dati in caduta libera nella graduatoria dei consensi.

L’anomalia dell’attuale situazione politica è altresì documentata dall’atteggiamento del premier Giuseppe Conte, che con il siluramento di Siri dimostra chiaramente di voler aiutare in campagna elettorale i Cinque Stelle, facendo incassare a Luigi Di Maio una vittoria di immagine non da poco. Si potrebbe dire che questa è la prima sconfitta cocente per Matteo Salvini da quando il governo ha iniziato la sua navigazione tempestosa. Il leader Cinque Stelle, grazie alla presa di posizione dell’inquilino di Palazzo Chigi, riafferma il primato del suo Movimento, anche in termini numerici, all’interno dell’esecutivo. Se si votasse in consiglio dei ministri sul caso Siri, la bilancia penderebbe dalla parte dei pentastellati, che sono maggioranza, avendo vinto le elezioni politiche del 4 marzo 2018 e avendo quindi ottenuto più ministeri.

Ma l’”avvocato del popolo”, forzando la mano sulla liquidazione del sottosegretario alle infrastrutture, ha gettato la maschera: non è più il garante di un contratto di governo, bensì il leader vero di una delle due forze che sostengono l’esecutivo. Ma può un “avvocato del popolo”, non eletto dal popolo, stravolgere con un colpo di mano la volontà popolare e decidere che un sottosegretario indagato per corruzione deve abbandonare il suo posto prima di essere eventualmente rinviato a giudizio? Da un uomo di diritto, quale è Conte, ci si sarebbe aspettato un equilibrio istituzionale maggiore. L’amara conclusione è che sul caso Siri ha vinto il becero giustizialismo e ha perso lo Stato di diritto. E il becero giustizialismo in questo caso si concilia con i cinici calcoli elettorali di qualcuno.