Usa 2016, volata lunga per 5 repubblicani
Le presidenziali sembrano lontane, ma dopo la batosta di Romney, il partito repubblicano sta cercando di ricompattarsi. E intanto spuntano cinque nomi nuovi per il futuro: tratto comune, il conservatorismo.
Negli Stati Uniti, il Partito Repubblicano rischia. Da quel 6 novembre 2012 in cui Barack Obama si reinsediò alla Casa Bianca fa quotidianamente ciò che gli strateghi cercano sempre di evitare. La guerra su due fronti. All’esterno, cerca di arginare un’Amministrazione sempre più radicale e invasiva. All’interno, prova a ricostruire una casa comune dopo le devastazioni dell’uragano Mitt Romney.
L’ordalia è fissata per l’8 novembre 2016, giorno di elezione del 45° presidente federale. Tenendo presente che il mondo (e il potenziale elettorato) conservatore è sempre più ampio del Partito Repubblicano, e che oggi i Repubblicani hanno praticamente sgominato la loro ala liberal interna, ci sono ben 3 anni e mezzo per trovare un candidato in grado di compattare il partito e un leader capace d’innalzare il conservatorismo ai vertici del Paese.
Oggi ricorrono con insistenza cinque nomi: Scott Walker, Rand Paul, Chris Christie, Marco Rubio e Rick Perry, più o meno in ordine di appeal.
Walker, governatore del Wisconsin, è al massimo della popolarità per la sua battaglia “thatcheriana” contro i sindacati, che sono e restano la spina dorsale dell’elettorato progressista. Paul, senatore del Kentucky, figlio d’arte del campione dei libertarian Rand Paul, antiabortista granitico e indomito antistatalista, ha le carte in regola per tenere uniti i social conservative e i fiscal conservative. Christie, governatore del New Jersey che già si è saputo legare strategicamente ai Tea Party, sta facendo dimenticare quella ingenerosa voce che lo volle in “intelligenza con il nemico” per essersi complimentato con Obama del pronto intervento dopo il ciclone abbattutosi sul suo Stato. Rubio, senatore della Florida di origine cubana, già stella dei Tea Party, non è amato dai latinos di origine messicana come non lo sono tutti gli oriundi dell’isola caraibica, ma sta lavorando a una riforma accettabile dell’immigrazione: la sua scommessa è farsi capire. Perry, governatore del Texas uscito di scena male nel 2012, ha risolto i problemi di salute e immagine che lo zavorrarono, vestendo i panni del vero “Reagan conservative” con parlantina efficace e valori tradizionali.
Tra loro e le primarie del 2016 c’è di mezzo il nodo gordiano delle “elezioni di medio termine” del 4 novembre 2014, quando gli americani rinnoveranno tutta la Camera dei deputati e un terzo del Senato federali. Gli stessi osservatori che guardano ora quei cinque con interesse affermano che l’anno venturo non dovrebbe essere difficile per i Repubblicani mantenere il controllo della Camera di Washington e persino conquistare il Senato. Se accadesse, e se quel quintetto trovasse il modo per legarsi ai vincenti, le difficoltà potrebbero diminuire sensibilmente.
Della “vecchia guardia” rimasta sul campo delle primarie scorse, Newt Gingrich è troppo “vissuto” per ritentare e Ron Paul troppo anziano. Resta Rick Santorum, il Repubblicano che a conti fatti ottenne allora il successo maggiore. Più Paul Ryan, scelto da Romney per la vicepresidenza e con Romney caduto in disgrazia, ma giovane, aitante e portatore di un’alternativa all’”Obamanomics” che di fatto tutti i Repubblicani condividono. Una curiosità: dei sopra nominati più della metà (Rubio, Christie, Santorum, Ryan) è cattolica (e lo è anche il fuori corsa Gingrich). Gli altri sono due protestanti evangelicali (Walker e Perry) e un presbiteriano (Paul, come il padre).
È davvero troppo presto per dire quali Repubblicani cercheranno la Casa Bianca nel 2016, ma la notizia vera è che i nomi oggi in pole position sono tutti conservatori (leggi difesa dei “princìpi non negoziabili” e resistenza intelligente alle rapacità dello statalismo). Lo sono certamente in modi diversi, non lo sono sempre e comunque su ogni e qualsiasi tema, le varie obbedienze del conservatorismo non li amano tutti allo stesso modo, ma la loro media è certamente più che buona. Soprattutto quando la si paragona al Partito Democratico, che a tutt’oggi sa balbettare ancora solamente i nomi di Hillary Clinton e dell’attuale vicepresidente Joe Biden (un cattolico di cui non si accorge nessuno), in entrambi i casi, su “princìpi non negoziabili” e statalismo, peggio che andare di notte.