Uruguay a rischio laicista
Il secolarismo minaccia i fondamenti della convivenza civile.
Nello scorso mese di novembre, l’Agenzia Fides ha diffuso il contenuto del documento della Conferenza Episcopale dell’Uruguay, in occasione della celebrazione del Bicentenario dell'inizio del processo d'indipendenza, intitolato Nuestra Patria: gratitud y esperanza (“La nostra patria: gratitudine e speranza”).
I temi al centro del testo, riguardano la dignità della persona umana e i suoi diritti inalienabili, con particolare attenzione al carattere naturale di questi diritti, riconosciuti nei trattati internazionali ed anche il diritto alla libertà di coscienza e alla libertà religiosa. I vescovi analizzano alcuni aspetti della realtà sociale: l'invecchiamento della popolazione, l'alto tasso di suicidi, la violenza, la povertà (soprattutto dei bambini), l'aumento del consumo di alcool e droghe, la situazione dei prigionieri e la violenza domestica. Il futuro dell’Uruguay, si gioca, a parere dei vescovi, sulla famiglia e sull'educazione. I vescovi ricordano il contributo storico della Chiesa nel campo educativo; riaffermano il diritto dei genitori, anche quelli con risorse limitate, di scegliere l'orientamento dell’educazione dei figli; ripropongono il tema della laicità e delle confessioni religiose. Si chiede inoltre di aprire il sistema scolastico a una maggiore presenza di forme e centri diversi, illustrando che per educazione si intende un servizio pubblico, sia dello stato come della gestione privata. La famiglia è definita «valore primario cui aspira la stragrande maggioranza degli uomini e delle donne» dell’Uruguay.
Tra gli aspetti e i problemi legati alla famiglia si indicano il matrimonio e il divorzio, la cultura della vita, la spiritualità, i valori del Vangelo vissuti nella vita familiare. Come quasi tutti i Paesi dell’America Latina - soprattutto quelli a forte radicamento cattolico - la secolarizzazione dell’Uruguay minaccia la famiglia soprattutto attraverso la piaga dell’aborto.
Nello scorso mese di dicembre, il Senato ha approvato una legge che rende libero l'aborto fino alla 12° settimana di gravidanza e se quest’anno la legge fosse approvata anche dalla Camera, l'Uruguay sarebbe il primo Paese dell'America Latina, dopo Cuba e Portorico, a depenalizzare completamente l'aborto, adesso ammesso in alcuni Paesi solo in circostanze eccezionali (Cile e Nicaragua lo vietano anche in caso di rischio della vita della madre).
Il progetto stabilisce che «ogni donna maggiorenne ha il diritto di decidere l'interruzione volontaria della gravidanza durante le prime 12 settimane del processo»; a questo termine ci sono tre precise eccezioni, che permettono di abortire anche dopo i primi tre mesi: se la gravidanza è frutto di una violenza, se è in pericolo la salute o la vita della madre, se il feto avesse malformazioni incompatibili con la vita. L'aborto dovrà essere garantito gratuitamente, negli ospedali pubblici e privati, a tutte le donne che ne facciano richiesta.
Secondo le cifre ufficiali, in Uruguay si praticano ogni anno circa 30mila aborti clandestini, ma c’è anche il sospetto che possano essere quasi il doppio.
Come sottolinea nel suo rapporto, la Fondazione di Diritto Pontificio Aiuto alla Chiesa che Soffre, l’Uruguay è anche il Paese dove è stata introdotta la legge sull’’unione civile fra partner omosessuali, in vigore dal dicembre 2007, dove è stato riformato - con una legge del 2009 - il Codice dell’infanzia e dell’adolescenza, che permette l’adozione alle coppie in unione libera o conviventi e alle coppie omosessuali, a condizione che si tratti di unioni che durano da almeno quattro anni. Nelle riforme che sono state promosse si stabilisce che l’unico organo competente per la selezione e l’assegnazione delle famiglie adottive, è l’Istituto del bambino e dell’adolescente dell’Uruguay, attraverso équipe specializzate in materia e il Registro generale delle adozioni. In questa maniera, il Movimento Familiare Cristiano, è stato escluso dal sistema. Ancora: nell’ottobre 2009 è stata promulgata la legge che permette il cambiamento di nome e di sesso a partire dai 18 anni di età, disponendo che «ogni persona ha diritto al libero sviluppo della sua personalità, conformemente alla propria identità di genere, indipendentemente da quale sia il suo sesso biologico, genetico, anatomico, morfologico, ormonale, d’assegnazione o altro».