NEO-DARWINISMO
Uomo, altro che scimmia. Dubbi non ve ne sono
Sedicenti scienziati straparlano
di morale e religione come momenti
di un’evoluzione della specie destinati fatalmente a essere superati.
Cultura
20_09_2011
Nel supplemento Tuttoscienze, allegato al quotidiano La Stampa di Torino del 14 settembre scorso, un sedicente scienziato straparla di scimmie, di evoluzione e di morale, e rilancia al grande pubblico il vecchio messaggio neopositivistico: la morale e la religione sono momenti di un’evoluzione delle specie destinati fatalmente a essere superati, sia nella coscienza che nel comportamento pratico. Addirittura l’articolo sfiora il ridicolo quando afferma che «la morale è anteriore alla religione, anzi è anteriore anche all’uomo».
Ma che vuol dire? Chi aveva la coscienza dei propri diritti e dei propri doveri quando non c’erano ancora uomini sulla terra? Sullo sfondo di questo rigurgito di neo-darwinismo per analfabeti c’è l’idea fissa degli animalisti, ossia degli etologi che si affannano a dimostrare l’indimostrabile, ossia che non c’è alcuna differenza di “qualità” tra l’uomo e gli animali, perché sia l’uno che gli altri sono esseri viventi esclusivamente materiali. Il logico corollario della teoria è che l’uomo non è dotato di facoltà spirituali, ossia non ha un’anima immortale che lo rende capace di conoscere il bene e il male e di rispondere liberamente all’amore di Dio che lo ha creato «a sua immagine e somiglianza».
Già da quello che ho appena detto si capisce come l’articolo della Stampa tocchi argomenti centrali della fede cristiana, minando le fondamenta stesse della religione e della morale cattolica. Ma siccome queste fondamenta sono costituite innanzitutto dalle verità che la ragione naturale raggiunge con le proprie forze (sono quelle “premesse razionali della fede” che la Chiesa ha sempre riconosciuto e difeso contro le false filosofie), occorre rispondere con argomenti seriamente scientifici alle provocazioni dei materialisti che pontificano sui giornali anticattolici (quello che si leggeva sulla Stampa non è diverso da quello che si può leggere tutte le settimane nelle pagine della “cultura” della Repubblica, del Corriere della Sera o del Sole – 24 Ore).
Prima ho qualificato (o meglio, squalificato) l’autore dell’articolo della Stampa dicendo che è «un sedicente scienziato». Non si tratta di livore polemico ma, appunto, di un’esigenza elementare di serietà scientifica. Quando qualcuno scrive qualcosa in materia di una qualsiasi scienza, facendo uso della libertà di opinione che si deve riconoscere a tutti, a chi legge si deve riconoscere altrettanta libertà di opinione, e quindi la facoltà di dissentire, di criticare. Uno che si presenta come scienziato di fronte a un pubblico generico (dove ci sono anche specialisti della sua materia, ma anche specialisti di altre materie o gente priva di istruzione superiore) non può certamente pretendere «l’interiore ossequio dell’intelletto» che invece pretende (legittimemente e giustamente) il magistero della Chiesa dai cattolici. Quindi, la prima cosa da fare è non farsi prendere dal clima di illogica venerazione fideistica nei confronti degli scienziati che parlano alla televisione (in programmi come Superquark, Voyager eccetera) o scrivono sui supplementi di scienza dei giornali come La Stampa. Poi bisogna passare a un esame del messaggio, per vedere se la tesi proposta abbia a che vedere con la competenza scientifica dell’autore.
Ogni proposta scientifica, infatti, è valutata dagli stessi scienziati in base a questi precisi criteri: 1) se si afferma qualcosa di determinato e ben circoscritto; 2) se ciò che si afferma è attinente alla materia e al metodo della ricerca scientifica nella quale l’autore è competente; 3) se si esibiscono le prove di quanto si afferma (o prove empiriche, o calcoli matematici, o deduzioni logiche). Ora, l’articolo in questione è firmato da un tale (del quale non vale la pena di ripetere il nome) che si presenta come etologo evoluzionista, e la sua tesi - che riguarda la morale e la religione - è giustificata da ragioni derivate dallo studio del comportamento delle scimmie. Ora, il metodo specifico dell’etologia (che è una scienza empirica, che applica ai fenomeni del comportamento osservabile nel mondo animale le tecniche che l’antropologia culturale e la psicologia sociale applicano ai fenomeni del comportamento osservabile degli essere umani) esclude in partenza che si possa trattare di morale e di religione, che non sono realtà riducibili ai fenomeni del “comportamento osservabile” né degli uomini e tanto meno delle bestie.
Posso fare un esempio: la psicologia della religione si avvale principalmente dell’introspezione, il che significa che lo scienziato prende in considerazione innanzitutto ciò che egli, come uomo, scopre dentro se stesso: ed è evidente che il metodo dell’introspezione non si applica ad alcuna ricerca sugli animali, perché gli scienziati, fino a prova contaria, non sono delle bestie (e se lo fossero, non sarebbero certo capaci di introspezione). Un altro esempio, gli studi più numerosi e importanti sulla religione realizzati negli ultimi cinquant’anni sono stati condotti da scienziati della scuola fenomenologica: e questa scuola non adotta altro metodo che non sia la fenomenologia della coscienza. Insomma, da nessun punto di vista scientifico una realtà come la religione può essere affrontato scientificamente sulla sola base del rilevamento di fenomeni del comportamento esteriore. Su questa base, come analizzare la conversione? Come parlare della speranza? Come rilevare la «nostalgia del totalmene Altro» della quale parlava Horckheimer?
Lo stesso dicasi della morale. Si tratta di una realtà intrinsecamente collegata alla razionalità, pertanto alla spiritualità dell’anima umana. La moralità consiste nella percezione intellettiva dei propri doveri dei propri diritti nei rapporti con gli altri esseri umani e poi anche in relazione con Dio (qui la morale diventa il presupposto della prassi religiosa). Sono capaci di “senso morale” (che è una componente essenziale del “senso comune”) non tutti gli uomini ma solo quelli che hanno in atto «l’uso di ragione», ossia quelli che in un determinato momento - nel momento della scelta su che cosa fare - sono «capaci di intendere e di volere». Ora, sia l’intendere che il volere sono atti spirituali che appartengono all’interiorità della coscienza e che pertanto non possono in alcun modo essere ridotti a ciò che si riflette esteriormente e che può essere notato da un osservatore esterno: le azioni osservabili che derivano dalla libertà di una persona sono solo alcune (e non le più imporanti) delle conseguenze di una scelta interiore tra il bene e il male, ossia tra il valore e il disvalore di un’azione che risultano evidenti a una persona grazie al “lume” della sua ragione. Che poi io sia libero lo so solo io: è un fatto di coscienza.
Nessun osservatore di fenomeni fisici (sia pure in campo psicologico o etologico) è competente in materia e nessuno può dirmi – con fondati motivi – che io sono o non sono libero di scegliere tra i bene e il male. Da Aristotele fino a oggi, la storia della filosofia è una continua e incontrovertibile conferma che l’esistenza della libertà (e della conseguente responsabilità morale) è un dato dell’esperienza interiore, è una certezza immediata e indubitabile (per chi volesse approfondire questo argomento, rimando al mio trattato, Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede, Leonardo da Vinci, Roma 2010). Non sono i filosofi a dimostrare che io sono libero: loro non possono dimostrarlo, e io lo so benissimo da me, e questo mi basta.
La filosofia è fatta da persone che già sanno di esere liberi, e la loro riflessione scientifica non fa che formalizzare in termini metafisici questa evidenza primaria. Così come non sono gli scienziati che possono negare che io sia libero: se uno di loro (come l’autore dell’articolo che ha provocato questo mio commento) mi dice che non sono libero, io gli rispondo che sta dicendo una sciocchezza, che un vero scienziato non parla di ciò che esula dalla sua competenza.
Se poi, per difendersi con armi improprie, lo scienziato mi dice che ci sono filosofi che negano la libertà, io gli rispondo che certamente ci sono: sono i materialisti, che professano il determinismo, ma non sono in grado di provarlo; anzi, nel loro discorso si contraddicono continuamente, giustificando la loro battaglia contro l’idea della libertà e contro la morale con motivi morali, come succedeva i marxisti quando affermavano il carattere di “sovrastruttura” della morale (la struttura di base dovrebbe essere materiale, cioè l’economia) e poi analizzavano sempre i conflitti sociali in termini moralistici, dividendo gli uomini in buoni e cattivi, denunciando lo «sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo» ed esaltando la scelta a favore della giustizia sociale e la «solidarietà rivoluzionaria».