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PAKISTAN

Un'altra strage di studenti firmata dagli jihadisti

Quattro jihadisti fanno irruzione nell'università di Charsadda, presso Peshawar, in Pakistan e fanno una strage di studenti. Un leader talebano rivendica, il portavoce del movimento smentisce. Ma non è la prima volta che i terroristi islamici mirano agli studenti, loro obiettivo prioritario.

Esteri 21_01_2016
Pakistan, strage di Charsadda

Charsadda, Pakistan, non lontano dalla città settentrionale di Peshawar: quattro uomini armati di mitra, granate ed esplosivi, protetti dalla nebbia, si arrampicano su un muro di cinta e si introducono in un edificio, sparando su tutto quello che si muove. Non si tratta di un obiettivo militare: è un college e un dormitorio della locale università Bacha Khan. L’obiettivo degli uomini armati sono studenti e docenti.

Il massacro è stato commesso ieri mattina, il bilancio finale, ancora provvisorio, è di 21 morti e 50 feriti, secondo le fonti della polizia pachistana (altre fonti parlano di "almeno 30 vittime"). Pur di non cadere nelle mani dei jihadisti e terrorizzati dall’improvvisa irruzione, diversi studenti si sono lanciati dalle finestre, come attestano alcune testimonianze. “C’era così tanto panico e così tanta paura – racconta un sopravvissuto all’agenzia Reuters – che un mio amico ha deciso di lanciarsi dalla finestra. Il palazzo dell’università è molto alto, ma era talmente terrorizzato che ha deciso di buttarsi comunque”. “Abbiamo visto tre terroristi che gridavano ‘Allah u Akhbar’ correndo sulle scale del nostro dipartimento – dice un altro studente all’agenzia AFP – Uno studente si è lanciato dalla finestra della nostra classe. Non lo abbiamo più visto rialzarsi”. Un altro studente, intervistato a caldo, Aiziz Khan, ha dichiarato alla Reuters di essersi chiuso in uno dei dormitori e di aver atteso l’arrivo delle forze di sicurezza. “Abbiamo sentito colpi di arma da fuoco dal retro del campus. Abbiamo pensato subito che c’era un combattimento. Poi la sparatoria si è fatta ancora più fitta. Abbiamo detto: ‘nelle stanze, nessuno esca!’ poi abbiamo atteso che arrivassero le forze di sicurezza. Hanno dimostrato un grande valore”. L’assedio agli jihadisti è durato almeno tre ore. Tutti e quattro i terroristi sono stati uccisi.

Uno dei leader dei talebani del Pakistan, Umar Mansoor, ha subito rivendicato l’attentato, affermando che sia una risposta all’offensiva lanciata dai militari contro le roccaforti del movimento islamista. Mansoor ha anche confermato la composizione del commando: quattro terroristi suicidi. Poco dopo, però, è giunta la smentita del portavoce ufficiale dei talebani, Mohammed Khurasani: i talebani non avrebbero mai preso parte ad un’azione “anti-islamica”. Questa smentita denota che vi siano alcune divisioni all’interno del movimento talebano del Pakistan e anche una certa considerazione dell’opinione pubblica locale. L’attacco al campus, infatti, giunge a un anno e un mese di distanza dalla strage commessa dai talebani (e, almeno in quel caso, decisamente rivendicata senza incertezze) nella scuola dei figli dei militari a Peshawar. Allora i terroristi avevano provocato 130 morti, quasi tutti bambini e ragazzini. E per una volta l’opinione pubblica del Nord del Pakistan, uno dei luoghi d’origine dei talebani, si era schierata con il governo e contro gli jihadisti. La giustificazione ufficiale dell’uno e dell’altro attacco è sempre la stessa: vendicare la morte dei combattenti talebani sulle montagne delle aree tribali (al confine con l’Afghanistan) colpendo i figli dei soldati, infondendo un senso di terrore e destabilizzazione in Peshawar, l’immediata retrovia del fronte della guerra al terrorismo.

Ma sarebbe riduttivo spiegare questi attacchi con una logica solo militare e locale, come fossero inseriti in una dinamica di vendette e contro-vendette. Il motivo per cui i talebani uccidono studenti è parte integrante della loro ideologia. E’ la stessa ragione per cui hanno provato ad assassinare Malala Yousafzai, studentessa-modello e attivista, ora sopravvissuta (in esilio) e insignita del Premio Nobel per la Pace. La stessa per cui, una volta al potere, vietano sistematicamente l’istruzione occidentale agli uomini e l’istruzione (nel suo insieme) alle donne. Nella concezione talebana della società, la donna non deve studiare, né lavorare. L’uomo deve studiare solo ciò che è prescritto dall’educazione religiosa. Tutto il resto è peccato.

Un altro gruppo che inizialmente si ispirò ai talebani, Boko Haram in Nigeria (ora affiliato allo Stato Islamico), prende il suo nome proprio dal divieto dell’educazione all’occidentale, diffusa soprattutto nelle scuole cristiane. La loro azione terroristica più conosciuta al mondo è il rapimento di 276 studentesse dalla scuola superiore di Chibok, nello stato del Borno, il 14 aprile 2014. Di quelle studentesse non si sa altro che quel che gli stessi terroristi affermano: che sono state vendute come schiave e “spose” ad altri jihadisti, in patria e all’estero. Perché, sostanzialmente, “le donne non devono studiare”. Nel 2013, maschi e femmine erano rimaste vittime di un altro grave attentato di Boko Haram, nella scuola agricola di Gujba, nello stato di Yobe. E gli esempi di attacchi deliberati a campus universitari e scuole si sprecano. E’ dello scorso settembre la notizia che l’università di Adamawa, ha reclutato vigilantes fra i locali cacciatori per proteggere gli studenti dal continuo pericolo di incursioni terroristiche.

Pochi mesi fa, lo scorso aprile, le bandiere delle nostre università erano a mezz’asta a causa di un altro eccidio jihadista di studenti: il 2 aprile 2015, un commando di Al Shabaab (il movimento somalo legato ad Al Qaeda ed ora allo Stato Islamico) fece irruzione nell’università keniana di Garissa provocando un massacro: 148 morti e almeno 80 feriti. In quel caso venne seguita una logica genocida, eliminando sistematicamente gli studenti di fede cristiana e rilasciando i musulmani.

Ma come dimostra la strage di ieri a Peshawar, anche essere musulmani non è una garanzia di salvezza, quando ci si trova di fronte a uno jihadista armato e nemico giurato della cultura.