Una vita per la vita e per salvare le madri dal crimine dell’aborto
Giancarlo Bertolotti, ginecologo di Pavia, è morto 11 anni fa in un incidente stradale. La diocesi di Pavia ha iniziato l’iter per la causa di beatificazione e canonizzazione di un uomo dedito totalmente a difendere il diritto alla vita e strappare madri alla condanna dell’aborto. Giancarlo era semplice, essenziale, umile, ancorato ai valori della fede e della preghiera, un apostolo del «bell'amore» come lui stesso si era definito. Questa la storia.
Ci sono uomini incapaci di scostarsi dalla verità anche quando costa cara, con una forza tale da far pensare immediatamente a quella di un Altro. Si chiama scelta, sigillo posto su uno per ricordare a tutti, anche a chi vuole dimenticarla, l’evidenza. Ed è quello che Dio ha impresso nel cuore di un medico italiano che ha letteralmente speso tutta la sua vita per difendere quella degli altri: il venerabile sulla via della beatificazione, Giancarlo Bertolotti, nato al cielo il 5 novembre 2005, alla cui morte seguì la conversione di diversi suoi colleghi, che da abortisti smisero di praticare l’infanticidio.
«Una pietra di inciampo posta nella clinica di ostetricia e ginecologia, cioè nel tempio della vita; una pietra angolare scelta da una sapienza superiore per la sua solidità, una pietra di paragone silenziosa con la quale doveva inevitabilmente confrontarsi qualsiasi persona o comportamento; segno di contraddizione per la nostra e mia salvezza». Queste le parole di un ex abortista, suo collega del Policlinico San Matteo di Pavia, l’anestesista Giovanni Coven.
Eppure Giancarlo era un uomo normale. Nasce il 21 febbraio del 1940 a Sant’Angelo Lodigiano, terzo di tre fratelli maschi. Proprio nel suo paese era nata santa Francesca Saverio Cabrini, canonizzata nel 1946 e molto ammirata da Giancarlo. La formazione che riceve in collegio sarà fondamentale nella maturazione della sua fede. I giovani studenti passano, infatti, il tempo fra lezioni, preghiera e gioco. Il ragazzino se la cava, ma non eccelle. Anzi, nella sua agenda ammette le volte in cui finge di essere malato per evitare di venire interrogato. Eppure la grazia ne supera i limiti, donandogli come professori personalità del calibro del filosofo Giovanni Reale.
Anche per questo, quando la tempesta del Sessantotto travolge molti giovani, la cui formazione religiosa è spesso impostata su una tradizione priva di ragioni, Giancarlo non tentenna. Adolescente, però, prova quella nostalgia profonda di chi ricerca un rapporto con Dio che sia carnale, una nostalgia che somiglia al travaglio del parto e da cui passano solitamente tutti i santi.«Sono molto triste, penso alla caducità delle cose umane (…). A un breve periodo di gioia sopraggiunge uno lunghissimo di dolore (…) Penso a quando sarò professore o ingegnere forse allora la vita sarà più bella. Ma è un’illusione, come sono triste, mi viene voglia di piangere». La scelta della professione, alla fine del liceo, viene pattuita in famiglia, contro i suoi interessi primari: la filosofia e l’educazione, che però verranno compiuti pienamente in un modo inaspettato.
Mentre studia si dedica all’educazione dei giovani della Fuci, alimentato da un desiderio fortissimo di portarli a Cristo. Anche per questo ci mette nove anni a laurearsi, pur essendo assetato «di verità… tale amore al Vero non lo avrebbe abbandonato mai più. C’era in lui il gusto della ricerca, della sana dottrina, della fedeltà al Magistero», confesserà il 19 novembre del 2005 su “Il Ticino” Ettore Cuboni, che lo ricorda mentre diciottenne incalza il professor Giuseppe Lazzati, incontrato sul treno. Spaventato dalla mediocrità, il giovane medico è attirato dal sacerdozio, ma gli accadimenti della sua vita lo spingono verso l’attività di medico in cui intravede la possibilità di realizzarsi a pieno anche come laico. È a questo scopo che si spende fino allo stremo delle forze per servire la comunità studentesca universitaria.
Ma, quando a 23 anni si accorge che l’attivismo gli ha tolto «tutte le energie, fisiche e spirituali… e il mio amor di Dio si è assai illanguidito», capisce che le sue forze non bastano. Una volta ricentrata la priorità, privilegialo lo studio e la preghiera, il suo impegno pubblico riprenderà un vigore nuovo: non più basato sul suo sforzo, ma sull’amore di Dio. Il giorno della laurea, nel 1968, in piena “rivoluzione sessuale” Giuseppe si trova «privo di fiducia in me stesso», non sapendo neppure quale specialità scegliere. Ultima fra le opzioni mette Ostetricia e Ginecologia, che poi imboccherà di fronte all’ideologia dilagante che minaccia la verità cristiana sulla sessualità.
È incredibile perché, dopo tanto penare, improvvisamente, quando la vocazione del giovane medico si chiarisce, la titubanza e il tentennamento, che paiono sue caratteristiche, scompaiono completamente. Giancarlo si dedica ai pazienti registrando ogni loro passo nelle cartelle cliniche che conserva per tutta la loro vita. Ama i bambini che fa nascere come fossero suoi e descrive la gioia degli sposi come la modalità con cui il Signore lo rende partecipe del Suo bene. Di tanti pazienti diventa amico fedele, padrino dei loro figli. Con loro soffre anche le perdite e le malattie, sempre immerso nella preghiera e nel dialogo con Dio per cui salva innumerevoli vite dall’aborto pregando e digiunando ogni mercoledì (giorno degli aborti al “San Matteo”) e ottenendo miracoli anche quando ogni speranza di convincere la donna a non uccidere pare persa. Non perde poi occasione di mettersi al servizio dell’enciclica Humanae Vitae, tanto avversa ai progressisti e al femminismo, ma per lui “liberante”, mentre definisce la contraccezione un “sotterfugio”, distribuendo volantini e tenendo corsi sulla bellezza della sessualità.
Dell’aborto ne parla invece come di «scempio», «uccisione premeditata», «sopruso di regimi dittatoriali». La forza con cui si scaglia contro il male è paragonabile solo al bene che prova per le persone ingannate dall’ideologia che combatte. Alcune di loro raccontano di essere state persuase dalla sua compagnia che arrivava fino alle visite, spesso gratuite e concesse a ogni ora del giorno e della notte. Racconta Giancarlo in un diario: «Lei entra mogia e triste e chiede di abortire, esce con lui, i due abbracciati mentre si guardano sorridendo, con la speranza negli occhi». Più tardi offrirà loro un alloggio.
Al funerale accorreranno innumerevoli le donne aiutate e i pazienti che riveleranno gli infiniti gesti di carità nascosta del medico, impegnato oltre che in ospedale e nel tempo libero con i pazienti nel volontariato presso le case di accoglienza per ragazze madri. Impegni per cui rifiuterà l’incarico di diventare primario. L’ostilità verso di lui in reparto è tagliente, tanto che per prendere in giro la sua fermezza contro l’aborto e la contraccezione o le sue scelte, come quelle di battezzare i bambini morenti, lo soprannominano “san Luigi”. I richiami dai superiori per le sue battaglie sono continui. Incurante, a un amico che ribadisce la loro posizione di minoranza, risponde: «E noi combatteremo».
Un sacrificio, quello di Giancarlo, che diede grande frutto, sia in vita, sia dopo la morte quando i suoi colleghi smisero di praticare gli aborti. Laura Montanari, sua collega inizialmente contraria alle idee del medico spiegherà: «Ha contagiato molti e si è formata una rete di sostegno alle donne in difficoltà, dalle infermiere, agli anestesisti, agli ecografisti». Fino all’ultimo sacrificio, quando il 2 novembre 2005, in fin di vita a causa di un incidente stradale mentre va a trovare una paziente (sebbene fosse un giorno festivo), decide di donare gli organi, fedele a Colui che aveva scelto di servire: «Creando gli uomini liberi, Dio rivolse a tutti l’invito a fare il bene; io umilmente accetto». Perciò il medico Arturo Mapelli, presidente del comitato etico del policlinico San Matteo, lo definirà “santo”. E, con lui, il vescovo emerito di Lodi e Treviso, monsignor Paolo Magnani, che auspicando la beatificazione esclamò: «Santo subito».