Una testimonianza dal Myanmar
Nel paese devastato dalla guerra sacerdoti e religiosi cattolici restano al fianco della popolazione sempre più in difficoltà
Una Pasqua difficile attende molti religiosi cattolici, quelli perseguitati e quelli che scelgono di non abbandonare i fedeli affidati a loro, di assisterli spiritualmente e materialmente condividendone pericoli e sofferenze a costo della vita stessa. È il caso dei religiosi del Myanmar, devastato dalla guerra ormai da tre anni. Il Centro Pime di Milano il 27 marzo ha organizzato un momento di preghiera per il paese durante il quale è stata letta la testimonianza di suor Regina, birmana, delle Suore della Riparazione. L’agenzia di stampa AsiaNews ha pubblicato il testo.
“Sono trascorsi ormai tre anni dal colpo di stato che ha destabilizzato la nascente democrazia in Myanmar e la situazione è peggiorata sotto tanti aspetti: oltre ai morti, molti dei quali giovani, ai numerosi feriti, alle case incendiate, alla fuga nelle foreste e al vivere accampati in situazioni precarie, al sofferto e deprimente silenzio delle istituzioni internazionali, c'è da rilevare soprattutto in questi ultimi tempi un allarmante pericolo a causa della fame e dell'aumento dei prezzi dei generi alimentari che provoca nelle persone una situazione insostenibile, che troppo spesso sfocia in reciproche rapine.
Posso testimoniare che circa una settimana fa il fratello di una mia amica stava guidando la sua moto quando un gruppo di persone lo ha aggredito, picchiato e derubato della stessa moto; è finito in ospedale ed è ancora grave. Anche i negozi vengono saccheggiati dalle persone affamate e tutti vivono nella paura, preoccupati della stessa vita.
Le popolazioni, in particolare i bambini e gli anziani, soffrono perché costrette ad abbandonare le proprie case per scappare nella foresta in luoghi inaccessibili dove non c'è acqua potabile, non c'è cibo e dove le piogge torrenziali, accompagnate dal vento, impediscono di dormire.
Questo non succede solo in qualche luogo, ma in molte zone del Myanmar. Inoltre, gli aiuti umanitari non riescono ad arrivare perché a causa dei combattimenti le strade vengono bloccate dai militari i quali, senza pietà, bombardano con gli aerei i campi profughi, le scuole, gli ospedali, i negozi e le chiese dove la gente cerca di rifugiarsi.
Durante la notte, oltre ai bombardamenti aerei e al blocco delle linee elettriche che riducono le persone al buio, avvengono incursioni da parte dell'esercito che entra armato nelle case e senza motivo arresta le persone, gettando interi paesi nel panico. I bambini quando sentono o vedono un aereo scappano in cerca di un nascondiglio. Oltre al dolore per i morti e feriti c'è anche la grande sofferenza di non riuscire a comunicare con le organizzazioni che potrebbero intervenire a lenire le sofferenze.
I giovani birmani sono consapevoli che la loro “vita donata” contribuisce alla costruzione della tanto desiderata democrazia e sono determinati a non tornare indietro. Anche le numerose etnie che compongono il nostro popolo si sono unite come braccio armato alla “People's Defence Force” (Forza di Difesa Popolare) per far fronte al regime militare.
Il 12 marzo scorso il regime ha emanato una legge che costringe al servizio militare i giovani birmani dai 18 ai 35 anni, le ragazze fino ai 28 e perfino i minori. L'intenzione è quella di usarli come scudi umani ponendoli in prima linea dove non c'è via di scampo, costretti ad uccidere i propri connazionali creando così conflitti etnici e religiosi. Per sfuggire a questa disumanità i giovani hanno due possibilità: o unirsi alle forze rivoluzionarie, la “People's Defence Force” e combattere contro il regime, oppure rischiare partendo per l'estero. Recentemente un giovane si è suicidato al pensiero di essere arruolato dal regime.
Di fronte a questa tragedia il nostro Istituto cerca di aiutare il più possibile la gente mediante il nutrimento fisico e il sostegno spirituale. Alcune sorelle vivono insieme ai profughi per star vicino ai bambini e alle mamme, creano nella foresta una vita para-normale con la scuola, il catechismo ed altre attività. Anche questo, però, è assai difficile perché i militarí controllano i nostri conventi non permettendo i viaggi e gli spostamenti. La scelta dell'Istituto rimane comunque quella di stare accanto alla gente e camminare con loro, fra lacrime e dolori, affrontando le sfide e i pericoli quotidiani.
La Chiesa birmana ha mosso alcuni passi con i suoi vescovi e sacerdoti contattando i responsabili del regime, i quali hanno fatto promesse, ma non hanno poi mantenuto gli accordi che erano stati definiti. I vescovi incoraggiano tutta la popolazione ad aiutarsi reciprocamente, particolarmente nelle zone dove il conflitto è più violento. Alcuni sacerdoti hanno scelto di vivere accanto ai loro fedeli nei campi profughi.
La nostra nazione ha tanto bisogno di guarigione. Ha bisogno di pace e di giustizia. E perché il Myanmar abbia un futuro di pace, vi chiedo per favore di pregare”.