Un tòcco troppo stretto scatena l’ira di Mugabe
Per ben due volte, è stato costretto a indossare un tòcco fuori taglia, ben più piccolo della sua testa, con grave danno d’immagine. É capitato a Robert Mugabe, il potentissimo presidente dello Zimbabwe, rettore magnifico dell’università di Harare. E adesso la funzionaria responsabile rischia il posto e non solo quello.
Il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, è solito presiedere alla consegna dei diplomi di laurea presso la University of Zimbabwe della capitale Harare di cui è rettore magnifico. Lo fa tutti gli anni, accolto con deferente ossequio da autorità, studenti e famiglie convenute. Ma nel 2014 qualcosa è andato storto. Come di consueto, prima dell’inizio della cerimonia, al presidente sono stati offerti toga e tocco, il copricapo in uso in tutti gli atenei del mondo. Con sgomento, quando Mugabe li ha indossati, è risultato evidente che il tòcco non era della misura giusta: troppo piccolo! Malgrado l’increscioso contrattempo, il presidente ha presenziato all’evento senza battere ciglio.
Tuttavia, per evitare che l’incidente si ripetesse, l’ateneo ha subito disposto che venissero confezionati dei nuovi tocchi di taglie diverse e che, prima della successiva cerimonia di laurea, fossero recapitati al presidente affinché li provasse. Sfortuna ha voluto, però, che i tòcchi non siano mai arrivati a destinazione. Stando a una anonima fonte governativa, l’autista incaricato di consegnarli è stato fermato e mandato via dagli agenti di sicurezza.
Così, alla conclusione dell’anno accademico 2015, l’imbarazzante situazione si è ripetuta. Resesi conto solo all’arrivo del presidente Mugabe che mancava il suo tòcco, le autorità dell’ateneo hanno ritardato di 45 minuti l’inizio della cerimonia nella vana speranza di rimediare in qualche modo. Poi si sono rassegnate a porgergli ancora una volta un copricapo stretto e, ancora una volta, migliaia di fotografie e filmati hanno ripreso il presidente con in testa un tocco della misura sbagliata.
Non risulta che l’ufficio di presidenza abbia inoltrato una protesta formale ai responsabili dell’ateneo che tuttavia hanno ritenuto prudente ingraziarsi Mugabe ed evitare di incorrere nella sua collera. Perciò hanno deciso la sospensione del vice segretario dell’ateneo, Ngaatendwe Takawira, una donna, alla quale a quanto pare spettava di far sì che il tòcco presidenziale fosse della giusta taglia. Nella lettera che annuncia il provvedimento si legge che il suo comportamento ha deplorevolmente causato «una situazione imbarazzante per il rettore e per il vice rettore».
La signora Takawira replica che in fin dei conti quel tòcco non stava così male a Mugabe, anzi, dalle fotografie si vede che gli stava benissimo; e che comunque non è lei l’unica responsabile, che la taglia per i nuovi copricapo era stata indicata dall’ufficio di presidenza, che quando si è trattato di provarli l’ufficio di presidenza ha rifiutato dicendo che Mugabe era impegnato. Ma non sarà certo il fatto di addossare la colpa all’ufficio di presidenza a salvarla, semmai questo peggiora la sua posizione, che è molto seria. Alla sospensione è possibile, infatti, che seguano altri provvedimenti disciplinari di cui le autorità accademiche stanno discutendo in queste settimane: la poveretta in realtà rischia il licenziamento. Già è tanto che non venga accusata di oltraggio al presidente e quindi anche di tradimento.
Così è la vita in Zimbabwe, un tempo granaio dell’Africa australe, produttore di tabacco e di altri raccolti per l’esportazione finché, nel 2000, la confisca di gran parte delle fattorie di proprietà dei cittadini bianchi ordinata da Mugabe ha provocato il totale crollo dell’economia nazionale. Come se non bastasse, in seguito il governo ha decretato che le attività economiche, anche se avviate, finanziate e amministrate da imprese straniere, dovevano diventare proprietà di cittadini zimbabwani almeno al 51%: un altro esproprio, in altre parole. Di questi giorni inoltre è la decisione del governo di assumere il controllo delle miniere di diamanti, altra grande risorsa dello Zimbabwe, perché, questo è il pretesto addotto dal presidente in persona durante un programma televisivo il 4 marzo, si è scoperto che i loro introiti verrebbero in gran parte rubati dalle multinazionali, lasciando ben poco al Paese: solo due miliardi di dollari su un valore effettivo di 15 miliardi.
Se anche fosse vero, risulta difficile credere che il governo ne sia stato finora all’oscuro dal momento che le miniere di diamanti sono per metà di proprietà dello Stato. La denuncia sembra piuttosto servire a giustificare l’impossibilità del governo di far fronte ai propri impegni finanziari, a partire dal pagamento degli stipendi dei dipendenti pubblici. Nel 2000 l’esproprio delle fattorie dei bianchi era stato presentato come un atto di giustizia, una riforma agraria intesa a ridistribuire equamente le terre fertili, restituirle ai legittimi proprietari a cui i colonizzatori europei le avevano sottratte. Quelle terre, poi, in parte sono state donate a personalità politiche e ad alti funzionari, che per lo più le hanno lasciate incolte, e in parte sono state divise in decine di migliaia di piccoli appezzamenti affidati a famiglie molte delle quali, per mancanza di mezzi finanziari e attrezzature moderne, riescono a ricavarne ben poco: spesso neanche di che sfamarsi. Ma da quest’anno un decreto varato dal governo impone loro di pagare un affitto da tre a 10 dollari per ettaro e una tassa fino a cinque dollari, sempre per ettaro.