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Il vertice

Ue, fumata nera per le nomine. Uno schiaffo alle élite

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Si è concluso con un nulla di fatto il vertice dei primi ministri dei 27 Paesi dell’Unione europea per decidere sulle nomine delle principali istituzioni comunitarie. A pesare l’atteggiamento dell’attuale classe di potere, che pensa di ignorare l’esito delle elezioni.

Politica 19_06_2024
Ursula von der Leyen, 17 giu 2024 (Ap via LaPresse)

Nonostante la speranza dei detentori del potere attuale, accompagnati dalla stragrande maggioranza dei giornali europei e dei leader di socialisti e liberali (Macron e Scholz in testa), i primi ministri dei 27 Paesi dell’Unione europea, riunitisi lunedì per la prima volta dopo le elezioni, non hanno trovato alcun accordo preliminare sulle tre nomine delle principali istituzioni europee: presidente della Commissione, presidente del Consiglio europeo e alto rappresentante per la politica estera. Aver dimenticato la realtà e l’esito del voto popolare delle ultime europee (6-9 giugno) ha portato a un fallimento del vertice.

L'attuale presidente del Consiglio, Charles Michel, alla 1.10 di martedì ha detto ai giornalisti che non c'era «nessun accordo», aggiungendo «che a giugno dovremo prendere due decisioni importanti. Una riguarda le cariche istituzionali, tenendo conto dei risultati delle elezioni del Parlamento europeo. E dobbiamo anche prendere un'altra importante decisione sull'agenda strategica… Sono fiducioso che riusciremo a concordare anche l'orientamento, perché dobbiamo concordare una squadra e un programma». 

La prossima riunione del Consiglio europeo sarà infatti il 27 e 28 giugno, ma al momento l’auspicio che i leader della vecchia maggioranza “Ursula” prendano atto del verdetto delle urne non ha trovato riscontri e, per dirla con Viktor Orban, alla riunione all’inizio di questa settimana è emerso chiaramente come questi leader bocciati dai cittadini «non si preoccupano della realtà, non si preoccupano dei risultati delle elezioni europee e non si preoccupano della volontà del popolo europeo». 

Il fallimento di ieri, paradossalmente sancito dal liberale Michel, ormai senza partito in Belgio dopo la sconfitta subita, è la naturale conseguenza di ipotesi campate per aria, costruite a tavolino prima del voto dai leader di socialisti, liberali e popolari (Macron-Michel-Rutte, Scholz-Sanchez; von der Leyen-Tusk-Weber) e che prevedevano la riconferma alla guida della Commissione della popolare Ursula von der Leyen, sostenuta dalla stessa maggioranza bianco-rosso-gialla e verde, e la riconferma, per metà mandato, della popolare Roberta Metsola (con i secondi due anni e mezzo di mandato ad un socialista). 

In questo piano, la presidenza del Consiglio europeo sarebbe andata ad un socialista, l’ex premier portoghese Antonio Costa, seppur sia ancora sotto indagine per corruzione e malversazione di fondi pubblici, mentre il posto di rappresentante per la politica estera sarebbe stato assegnato alla liberale e attuale premier estone Kaja Kallas, nonostante il marito sia ancora sotto indagine per affari poco chiari con la Russia di Putin. 

Tutto lecito, noi siamo garantisti, ma in questa ipotesi, oltre alla deficienza politica, c’era anche una totale mancanza di ogni senso di opportunità e responsabilità istituzionale. Da questo accordo, ovviamente i socialisti e i liberali avrebbero ottenuto riconoscimenti molto superiori al voto popolare, anche in considerazione della possibile nomina del liberale Mark Rutte alla segreteria generale della Nato. 

In tutto ciò, i padroni del vapore avevano semplicemente immaginato di poter sospendere l’esito elettorale che li ha visti perdenti, non considerando né la crescita dei conservatori, né quella degli identitari e democratici, né tantomeno le decine di parlamentari nazionalisti e cristiani e convinti anti-centralisti che fanno parte del nuovo parlamento. Aver immaginato di partire dalle ambizioni personali o dai desideri elettorali, smentiti poi dai fatti, non poteva che portare al fallimento di ogni intesa. Di più, la correttezza del Partito dei conservatori e della sua leader Giorgia Meloni dovrebbe essere apprezzata, financo per aver evitato sinora di inglobare nel proprio partito e gruppo parlamentare gli 11 parlamentari ungheresi e molti altri che da diverse nazioni europee desiderano trovare una casa confacente ai propri ideali e valori. Purtroppo, l’andazzo attuale e soprattutto la volontà di trovare un accordo prima delle elezioni francesi, Paese importante per molteplici ragioni e che vedrà sicuramente maggioranze diverse da quella odierna (liberale e macroniana), dimostra l’ennesima sfacciataggine antidemocratica delle élite europee. Il vero nodo della trattativa non può essere quello posto dal Ppe, cioè di dividere temporalmente con i socialisti il mandato di presidente del Consiglio europeo. 

Il Ppe, maggiore forza politica e parlamentare, deve assumersi la responsabilità – in prima persona, con il proprio leader Manfred Weber – di convocare alla luce del sole i leader dei cinque maggiori gruppi politici e gestire la questione degli incarichi istituzionali. Lasciare la responsabilità ad altri e soprattutto rassegnarsi alle camarille gestite da personaggi superbi e politicamente impreparati, come è stato sino a ieri, significa non capire nulla della realtà attuale, favorire l’antieuropeismo estremista e abbandonare il Parlamento e il Consiglio europei alla guerriglia continua su qualunque proposta nei prossimi cinque anni.