Ucraina, guerra dimenticata
C'è una guerra alle porte d'Europa, che ha già provocato 7000 morti e più di due milioni di profughi: è il conflitto nell'Ucraina orientale. Domani, a Berlino, si terrà un mini-vertice di Germania, Francia, Russia e Ucraina per discutere del futuro della tregua in armi. Ma nessuna soluzione è a portata di mano.
In Europa il dibattito sull’accoglienza dei profughi prende soprattutto in considerazione le guerre in Siria e in Iraq. Ma, direttamente al confine orientale dell’Ue, è ancora in corso il conflitto in Ucraina, che continua a mietere vittime e a produrre masse di profughi, anche se passa in secondo piano nelle cronache. Domani, se l’incontro verrà confermato, si terrà un mini-vertice di Francia, Germania, Russia e Ucraina, per discutere sul vero oggetto del contendere: lo status delle province di Donetsk e Luhansk.
In teoria, dallo scorso mese di marzo, è in vigore la tregua di Minsk, dunque la cessazione delle ostilità e la costituzione di una fascia demilitarizzata che divide le forze dell’esercito regolare ucraino dagli irregolari pro-russi che presidiano le province di Donetsk e Luhansk, la regione del bacino minerario del Donbass che confina con la Federazione Russa. Le due province sono ancora ufficialmente parte dell’Ucraina, ma dall’aprile del 2014 si amministrano da sole e combattono contro i regolari, con l’appoggio militare e diplomatico della Russia. La tregua di Minsk, oltre a sancire la fine (ufficiale) dei combattimenti, ha anche fissato una road map che prevede la concessione di un’ampia autonomia alle due province russofone e, entro novembre, la convocazione di nuove elezioni locali, monitorate internazionalmente.
Questo è lo scenario sulla carta. La realtà sul terreno è molto differente. Prima di tutto, la guerra continua, registrando delle puntate di maggior violenza alternate a periodi di relativa calma. Mentre questo articolo viene scritto, il livello di violenza è basso, il più basso dall’inizio dell’anno secondo gli osservatori. Ma per tutta l’estate si è registrata una forte escalation dei combattimenti, soprattutto nell’area di Mariupol (sul mare d’Azov), tanto da temere una quinta offensiva delle forze pro-russe contro le truppe ucraine. L’offensiva tanto temuta non si è materializzata, ma la tensione resta alta. Una tregua fra le due parti è stata raggiunta il 1 settembre. Il numero dei caduti, dall’inizio del conflitto (aprile 2014) ad oggi, è stimato in circa 7000 caduti. Al momento degli accordi di Minsk era stimato in 5400. Dunque, sono più di 1600 i morti provocati dai combattimenti in tempo di “tregua” e potrebbero essere anche molti di più, perché i pro-russi non dichiarano le loro perdite e le statistiche ucraine ufficiali, come riportano fonti locali e reporter, non riportano sempre tutte le perdite subite.
Tenendo ben presente il livello di violenza raggiunto nel Donbass, è comprensibile come sia scoppiata una battaglia parallela nella politica ucraina, con momenti di tensione forti anche nella capitale. Il 31 agosto scorso, la Rada (parlamento) di Kiev ha votato in prima lettura, con una maggioranza risicata, 265 deputati su 450, il testo della riforma costituzionale che dovrebbe garantire una maggiore autonomia alle due regioni separatiste. Non si tratta di un vero e proprio statuto speciale, come precisa il presidente della Rada Volodymyr Hroysman, ma è comunque un primo passo verso la road map tracciata dagli accordi di Minsk. E a questo punto, però, i volontari dei partiti nazionalisti Svoboda e Pravy Sektor, che hanno combattutto in prima linea contro gli irregolari russi, si sono sentiti traditi e hanno reagito con la forza. Nel giorno della votazione, militanti armati di Svoboda hanno sfidato la polizia di fronte alla sede della Rada. Nello scontro che ne è scaturito, il più violento dalla rivoluzione del Maidan (novembre 2013 – febbraio 2014), sono morti tre poliziotti e un centinaio, fra civili e poliziotti, sono stati feriti. Il presidente ucraino Petro Poroshenko ha denunciato la “pugnalata alla schiena” dei nazionalisti, che sono e restano forze marginali ed extraparlamentari. Il presidente, nella stessa occasione ha anche affermato di avere l’appoggio del 70% del popolo ucraino, favorevole alla riforma costituzionale per l’autonomia delle province orientali.
L’opposizione al piano di riforma, tuttavia, non proviene solo dalla destra ucraina, ma anche dai separatisti pro-russi e dalla stessa Russia. I separatisti hanno infatti già votato un loro referendum per la secessione dall’Ucraina, mai riconosciuto a livello internazionale. Dopo un anno e mezzo di guerra, non si accontentano di uno status di autonomia e chiedono di poter partecipare ai negoziati con loro rappresentanti. La Russia ha contestato la riforma approvata (solo in prima lettura, è bene ricordarlo) dalla Rada, per lo stesso motivo: Luhansk e Donetsk non erano rappresentate, dunque si è trattata di una decisione unilaterale. Secondo Mosca, il coinvolgimento delle due regioni rispetterebbe meglio la lettera degli accordi di Minsk. Se l’Ucraina ha accettato un grande sacrificio, fino ad arrivare allo scontro interno con morti e feriti, potrebbe, insomma, averlo accettato vanamente. La situazione è dunque tornata ad essere molto intricata e nel mini-vertice di Berlino previsto per domani, il “Quartetto della Normandia” (chiamato così perché costituito dai vertici delle quattro nazioni incontratesi nelle celebrazioni del 70mo anniversario dello sbarco in Normandia) dovrà discutere su tutti gli aspetti: quando e come si voterà nelle due regioni, quale sarà il loro ruolo nello Stato ucraino, quale sarà il loro status. Trovare un equilibrio è difficilissimo: dopo un anno e mezzo un’autonomia troppo ampia costituirebbe, dal punto di vista ucraino, una resa di fronte alla Russia; al contrario, una riaffermazione dell’ordine centralista potrebbe garantire la prosecuzione del conflitto per altri anni.
E nel frattempo nessuno garantisce che la guerra non riprenda ancora. Nessuno, a partire dalla Russia, che fornisce tutto il materiale necessario alle milizie del Donbass e che, proprio in questi giorni, ha avviato la costruzione di una nuova base militare a Belgorod, non lontano dal confine ucraino, ufficialmente a scopo addestrativo, in pratica, probabilmente, anche per fare quel che la Federazione ha sempre fatto e negato: infiltrare uomini, armi e materiali in territorio ucraino.