Tutte le furbizie di Obama, presidente “riluttante”
Le poche cose che Obama ha detto, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, sui temi legati a difesa e sicurezza confermano che il ruolo ricoperto dagli Usa non è il frutto di errori o incapacità, ma obbedisce a una precisa strategia. Quella di dividere e indebolire i competitor anziché stabilizzare le aree di crisi.
É stato necessario attendere il suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione per dipanare almeno un po’ i dubbi sulla visione strategica di Barack Obama definito da molti “presidente riluttante” quando si tratta di usare la forza militare. Le poche cose che Obama ha detto sui temi legati a difesa e sicurezza confermano che il ruolo a volte inconsistente, in altri casi caotico e in altri ancora destabilizzante ricoperto dagli Usa negli ultimi anni non è il frutto di errori o incapacità del commander in chief ma rispecchia perfettamente il nuovo ruolo degli Stati Uniti, più interessati a lasciare che i loro competitor si dissanguino in scontri e conflitti infiniti che a stabilizzare le aree di crisi.
«L'America resta di gran lunga la nazione più forte, l'economia più solida», ha detto al Congresso ed è difficile dargli torto specie quando sottolinea che le otto principali potenze militari che seguono gli Usa nella classifica del “military power”, tutte insieme non raggiungono le capacità statunitensi. Accusa i repubblicani, che rappresentano una fetta forse maggioritaria degli americani che vorrebbero una guerra vera contro l’Isis, di voler solo «bombardamenti a tappeto» e di regalare «allo Stato Islamico la rappresentanza di una delle più grandi religioni del mondo». Un attacco diretto a Donald Trump che aveva proposto di bloccare l’accesso agli Usa ai musulmani «finché chi ci governa non avrà capito cosa sta succedendo». Il limite del discorso di Obama è forse quello di essere stato concepito come un comizio contro i repubblicani, più da leader di partito che da presidente, sacrificando così l’opportunità per un sereno bilancio di otto anni di presidenza.
Tira una stoccata al suo predecessore, George W Bush, dicendo che l'America è «più sicura e più forte» senza inseguire la chimera di «andare a costruire Nazioni in giro per il mondo». Il problema è però che in Iraq e Afghanistan ciò che di buono aveva fatto il nation building dei neoconservatori è stato annullato dai ritiri militari dell’amministrazione Obama con il risultato di lasciare i due Paesi, e le regioni che li circondano, nel caos totale. Nel mirino di Obama c’era soprattutto Trump al quale il presidente regala così (ma non dicevano che era un grande comunicatore?) il passaggio ufficiale da candidato “folcloristico” alle primarie repubblicane a unico vero avversario dei democratici per le presidenziali.
Nella foga di attaccare la controparte politica, Obama ha ammesso che lo Stato Islamico è la più grave minaccia in questo momento, ma «non è una minaccia vitale per l’America» che, come la Nato, ha messo la Russia in cima alla lista delle minacce strategiche. Dichiarazione che spiega solo in parte il blando contrasto statunitense ai jihadisti che stanno destabilizzando Nord Africa, Sahel e Medio Oriente minacciando l’Asia Centrale. Aree energetiche di cui gli Usa non hanno più bisogno poiché, come ha ricordato Obama nello stesso discorso «siamo ormai autosufficienti sul fronte energetico». Non è così però per la gran parte delle potenze industriali dall’Europa all’India, dalla Cina a Giappone e Corea del Sud, guarda caso tutti rivali commerciali degli Usa, che delle risorse energetiche di quelle regioni hanno estrema necessità.
Forse per questo l’Isis non è considerata una «minaccia vitale per l’America» anche Obama è imbarazzante quando afferma che quando l’Isis sarà stato annientato il terrorismo non scomparirà e sorgeranno altre minacce che dovremo sapere affrontare insieme agli altri Stati. Mettere sullo stesso piano l’Isis con altri movimenti terroristici e con la stessa al-Qaeda è ridicolo, non fosse altro per il fatto che lo Stato Islamico ha la capacità di occupare ampi territori e costituire veri e propri “Stati”, impartendo agli statunitensi una lezione di come si fa davvero il nation building. La strategia del multilateralismo e del soft power rivendicata con orgoglio da Obama viene ritenuta necessaria perché l'instabilità del Medio Oriente è il prezzo di sconvolgimenti che «dureranno una generazione», ma il presidente ha dimenticato di evidenziare che gran parte di questi sconvolgimenti sono stati generati dalla sua politica, a partire dal sostegno alle primavere arabe anche contro gli alleati storici di Washington (Tunisia ed Egitto) e alle guerre contro i regimi libico e siriano.
Obama ha cercato di nascondere una strategia tesa a generare il caos ribadendo il no a un intervento militare terrestre contro lo Stato Islamico e la rinuncia al ruolo di “poliziotto del mondo” perché «abbiamo appreso le lezioni del Vietnam e dell'Iraq». Frase furbesca, forse di facile appeal su una parte del suo elettorato, ma priva di prospettiva storica. Il conflitto vietnamita costituì l’esempio più rilevante della strategia del contenimento dell’espansione comunista e in quest’ottica va analizzato, specie 40 anni dopo la caduta di Saigon. L’invasione dell’Iraq del 2003 aveva invece l’obiettivo ambizioso di portare la democrazia in Medio Oriente come antidoto al terrorismo islamico, ripetendo quanto effettuato in Europa e Giappone con la Seconda guerra mondiale. Occorrerebbe chiedersi quante delle ragioni del fallimento siano da attribuire all’incapacità statunitense di perseguire nel tempo quell’obiettivo evitando destabilizzanti ritiri militari che hanno aperto le porte al caos.
Analisi che a Obama non interessano, soprattutto in un discorso basato più su slogan che sull’approfondimento della sua politica come dimostra anche l’espressione da vero “macho” con cui ha suggerito a chi avesse dubbi sulla sua determinazione a combattere l’Isis di «andare a chiederlo a Osama Bin Laden».