Turchia: il Sultano vince, ma il paese è spaccato
Recep Tayyip Erdogan ha vinto il referendum sulla riforma costituzionale. Ora la Turchia, per la prima volta dal 1923 cambia sistema e diventa una repubblica presidenziale. Il capo di Stato sarà anche capo dell'esecutivo e avrà poteri molto più ampi dei suoi omologhi occidentali. Ma la vittoria è risicata e rivela la realtà di un paese spaccato.
Almeno non si può dire che sia stata una sorpresa: Recep Tayyip Erdogan ha vinto il referendum sulla riforma costituzionale con un margine estremamente ridotto. Esattamente come previsto dagli ultimi sondaggi di sabato (per una volta hanno previsto giusto, dopo un anno disastroso per i sondaggisti) i Sì alla riforma sono il 51,4% mentre i No sono 48,6%. Quasi un pareggio che rivela un paese spaccato a metà, ma che comunque consegna la vittoria al nuovo “Sultano”: il presidente Erdogan, d’ora in avanti, godrà di poteri molto più ampi rispetto a quelli di qualunque omologo occidentale, sarà quasi un dittatore. Sempre che non cambi tutto, da qui al novembre del 2019, quando saranno previste le prime elezioni presidenziali con il nuovo sistema.
Non è affatto esagerato parlare di svolta “storica”, come ha subito fatto il presidente Erdogan, promotore della riforma. Il referendum, infatti, stravolge completamente l’assetto istituzionale della repubblica turca, immutato dal 1923, anno della sua istituzione per volontà di Mustafa Kemal Ataturk. La costituzione kemalista prevedeva un parlamento forte, con la funzione di eleggere il governo e nominare le più alte cariche della magistratura. La democrazia parlamentare turca è entrata in crisi più di una volta. Per questo, a vegliare sul sistema, c’era soprattutto l’esercito, che controllava a sua volta parte della magistratura. Per ben tre volte in mezzo secolo, dal secondo dopoguerra, i militari presero il potere con la forza. Una quarta volta indussero il governo (quello islamico del premier Erbakan) a farsi da parte, nel 1997, senza intervenire direttamente. Con la nuova costituzione, invece, l’esercito non ha più il potere di nomina dei magistrati, il parlamento non ha più il potere di eleggere e controllare il governo (e parte della magistratura). Il presidente, eletto direttamente ogni cinque anni, avrà pieno potere esecutivo e nominerà il governo, potrà avere la tessera di un partito (ora il presidente deve essere almeno nominalmente apolitico), emanare decreti esecutivi e nominare la metà del prossimo Consiglio dei Giudici e dei Pubblici Ministeri. Un potere molto più ampio, dunque, rispetto a quello dei sistemi presidenziali occidentali che, teoricamente, Erdogan ha dichiarato di voler imitare.
La Turchia, negli ultimi cinque anni, almeno da quando è dilagata la Guerra Civile Siriana, è diventata un paese estremamente instabile, esposto al terrorismo sia islamico che curdo e al peso di quasi tre milioni di rifugiati. La violenza crescente e il terrorismo hanno indotto Erdogan, divenuto presidente nel 2014 dopo 11 anni di premierato, a chiedere un esecutivo forte, un modello nuovo, un “uomo solo al comando”. La riforma costituzionale è stata completata dopo un processo difficile e vincendo un’opposizione disperata: nelle elezioni del 2015 l’Akp, il partito islamico di Erdogan ha perso la maggioranza necessaria a portare a termine la riforma. La perse grazie all’affermazione elettorale del nuovo partito di sinistra Hdp, a maggioranza curda. Dopo pressioni politiche, arresti, inchieste e una recrudescenza della guerriglia nel Kurdistan turco, si è giunti alle elezioni anticipate del 2016. Erdogan ha manovrato per eliminare ogni ostacolo, interno ed esterno. Nel maggio del 2016 l’immunità parlamentare è stata eliminata, per aumentare ulteriormente la pressione sugli oppositori, mentre il premier Davutoglu, contrario alla riforma costituzionale, è stato sostituito con il più fedele Yildrim.
Da giugno 2016 tutto pareva pronto per portare a termine la riforma, quando, il 14-15 luglio, una parte dell’esercito turco ha messo in moto uno dei più misteriosi tentativi di golpe della storia turca, un putsch senza volto, ordinato da vertici senza nome. Del fallito colpo di Stato resta solo una lunga scia di sangue e di vendette politiche: decine di migliaia di arresti, 100mila personalità licenziate o rimosse dalla loro carica. Erdogan ha accusato senza ombra di dubbio il suo ex alleato, il politologo e islamista Fethullah Gulen, in esilio volontario negli Stati Uniti. La Turchia è tuttora in stato di emergenza, i rapporti con l’Ue sono rovinati dalla durezza della repressione e dalla violazione dei diritti umani, quelli con gli Usa sono tesi a causa di Gulen “l’americano” e la Turchia è attualmente in un limbo geopolitico. Non si capisce più di chi sia alleata. Erdogan, nonostante la sua carica (teoricamente apolitica) di capo di Stato si è speso in prima persona nella campagna referendaria. In uno scenario di crescente violenza politica, i ministri dell'Akp, promuovendo manifestazioni pro-riforma anche in Europa, hanno provocato gravi incidenti diplomatici con Olanda e Germania, compromettendo ulteriormente i rapporti già tesi con l'Ue. Moschee e movimenti islamici politici, in patria e in Europa, hanno giocato un ruolo fondamentale nella campagna.
E’ in queste condizioni, con i diritti sospesi, le relazioni internazionali tese e un presidente in sella col pieno controllo sul paese, che si è votato nelle condizioni migliori possibili per la vittoria della riforma presidenziale. Una vittoria che, ormai, si sarebbe ottenuta “con o senza” il consenso reale del popolo. Fra le opposizioni, le poche voci indipendenti sopravvissute alla repressione post-golpe, serpeggiava la paura di un contro-golpe di Erdogan in caso di sconfitta alle urne. Sconfitta che, visti i magri risultati, a questo punto era più che probabile.
Invece il “Sultano” ha vinto. Se verrà eletto nelle prime elezioni presidenziali del 2019, con due mandati di cinque anni l’uno, potrebbe governare ininterrottamente la Turchia fino al 2029. Vista l'origine ideologica e la sempre più esplicita militanza del governo dell'Akp e dello stesso Erdogan è probabile che quei dieci anni futuri saranno usati per dare un'ulteriore svolta islamica alla Turchia. Per promuovere tutte quelle leggi conformi alla sharia che finora sono considerate ancora un tabù. Ma il paese è spaccato. Spaccato anche territorialmente: la Turchia europea, la costa egea da una parte, il Sudest curdo dall’altra hanno votato contro la riforma. Il cuore dell’Anatolia resta fedele al presidente e gli ha confermato i nuovi poteri. Ma il partito di opposizione laico di sinistra Chp non ha accettato i risultati. Chiede di ricontare almeno 2,5 milioni di voti e denuncia il sospetto che i risultati annunciati dall’agenzia nazionale siano falsi, che il conteggio si sia addirittura fermato al 60% dei seggi. Tira aria di guerra civile? Non va escluso. La Turchia ci ha abituato a qualsiasi cosa.