Trump, l'unico coraggioso a sostenere Hong Kong
Benché gli osservatori, come quelli di Foreign Policy fossero già pronti a parlare di "tradimento di Hong Kong" da parte di Trump, il presidente americano ha firmato l’Hong Kong Human Rights and Democracy Act che chiede garanzie di autonomia e libertà per l'ex colonia britannica. E' l'unico leader mondiale che si schiera apertamente.
Il presidente degli Stati Uniti d’America Donald J. Trump è l’unico leader mondiale che ha il coraggio, l’intelligenza e il carattere per schierarsi apertamente con chi, a Hong Kong, dal 9 giugno manifesta e pure muore per la libertà, resistendo alla tirannide neo-post-comunista di Pechino. Il 27 novembre ha infatti firmato l’Hong Kong Human Rights and Democracy Act (S.2922), dando al provvedimento vigore di legge.
In origine la proposta era stata introdotta come atto legislativo bicamerale e bipartisan (HR5696) il 13 giugno dal deputato del Partito Repubblicano, in rappresentanza del New Jersey, Christopher H. Smith, già copresidente della US Congressional-Executive Commission on China e oggi suo secondo ranking member. La Camera federale lo ha quindi approvato il 15 ottobre per acclamazione verbale. Poi il 19 novembre il Senato ne ha approvato all’unanimità una versione emendata, primo firmatario il senatore del Partito Democratico, in rappresentanza dell’Ohio, Sherrod Brown. Quindi il testo è subito tornato alla Camera, che lo ha definitivamente approvato presto, il giorno seguente, per poi finire mercoledì sulla scrivania dell’Ufficio ovale della Casa Bianca.
Con esso il governo democratico statunitense esorta il governo comunista cinese «a rispettare i propri obblighi ai sensi del diritto internazionale» e «i propri impegni nei confronti di Hong Kong, incluso consentire al popolo delle regione di governarsi con un elevato grado di autonomia e senza interferenze indebite, garantendo agli elettori il godimento del diritto di eleggere liberamente a suffragio universale il capo dell’esecutivo e tutti i membri del Consiglio legislativo». Gli Stati Uniti chiedono inoltre esplicitamente «di indire, entro il 2020, elezioni democratiche aperte e dirette per tutti i componenti del Consiglio legislativo di Hong Kong, nonché di sostenere la libertà e l’indipendenza della stampa, inclusa quella prosecuzione della programmazione di trasmissioni a livello internazionale di programmi in lingua cantonese che è già accessibile alla popolazione di lingua cantonese in Cina e a Hong Kong».
Ovviamente Pechino ha reagito a stretto giro, minacciando conseguenze gravi. Ma tant’è: Trump resta l’unico leader mondiale capace di fare una cosa del genere. Né la cosa è scontata. Vero è che, alle sue spalle, c’è un Congresso federale, diviso su tutto ma non sulla Cina, che ha votato compatto la proposta di legge. Ma vero è anche che Trump si è prestato volentieri al gioco, fornendo l’interpetatio authentica delle parole, apparentemente cerchiobottiste, che aveva pronunciato solo qualche giorno fa, dicendo: «Noi dobbiamo stare con Hong Kong, ma io sto anche con il Presidente Xi. È un mio amico», cosa che ha spinto Foreign Policy a rompere il tradizionale aplomb e definire la cosa un tradimento di Hong Kong.
Vale a dire: gli Stati Uniti, per una serie enorme di ragioni, e non tutte spregevoli, non possono (come al giorno d’oggi nessuno può) permettersi di isolare totalmente la Cina. Si sarebbe potuto forse fare negli anni 1930 con la Germania nazionalsocialista; si sarebbe potuto fare durante la Guerra fredda, soprattutto all’inizio, con l’Unione Sovietica, ma farlo con la Cina nel villaggio globale non è possibile pur se lo si vorrebbe (e poi magari non è di per sé nemmeno totalmente giusto). Ma alternare il bastone con la carota è la realpoltik possibile. Negli Stati Uniti, sempre avanti un passo, sta accadendo esattamente questo. Il bastone è per esempio la Congressional-Executive Commission on China; la parte della carota la fa invece Trump, salvo poi al momento buono “arrendersi” e sostenere smaccatamente Hong Kong con tanto di sigillo presidenziale. Basta vedere le reazioni isteriche di Pechino per sincerarsene. L’unico modo per costringere il tiranno a più miti consigli è cioè questo. Certo il tiranno sbraita, si agita, minaccia: interpreta il suo ruolo, insomma. Ma al contempo sa che qui non ha a che fare con mammolette. Né, per esempio, con l’Italia dei Luigi Di Maio e dei Giuseppe Conte, sdraiati ai suoi piedi.
Certo, la timidezza (per usare un understatement) del mondo occidentale nei confronti del regime neo-post-comunista cinese non risparmia nessuno e cresce proporzionalmente agli investimenti profusi da Pechino per quella “Belt and Road Initiative” che è il tentativo di riscrivere la globalizzazione “con caratteristiche cinesi”, quelle che abbondano di repressione, violenza, tortura, morti, conculcazione della libertà religiosa, chiusura di chiese, campi di detenzione, capillare sorveglianza high-tech di tutti e ciascuno, laddove basterebbe invece che uno solo dei potenti del mondo facesse sentire la propria voce senza aggiungere “ma anche”. In questo mondo, però, fatto di indifferenti colpevoli, cui non augureremmo mai di trovarsi nei frangenti in cui si trovano ora gli abitanti di Hong Kong o, peggio ancora della Cina continentale, qualcuno si è alzato e ha mostrato quanto è diritta la sua schiena.