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CRISI NUCLEARE

Trump in Corea del Nord, l'arte degli affari (di pace)

Ieri al confine con la Corea del Nord si è fatta la storia. E non si può dire altrimenti: Donald Trump, piaccia o meno, da ieri è il primo presidente americano in carica ad essere entrato in territorio nordcoreano a parlare direttamente con il dittatore in carica, Kim Jong-un. Ricomincia il dialogo sul nucleare nordcoreano: può sempre fallire, ma almeno Trump dimostra la sua buona fede nel cercare di tener vivo il negoziato e preservare la pace (tanto il Nobel lo daranno a Greta)

Editoriali 01_07_2019
Donald Trump e Kim Jong-un passano assieme il confine fra Sud e Nord Corea

Ieri al confine con la Corea del Nord si è fatta la storia. E non si può dire altrimenti: Donald Trump, piaccia o meno, da ieri è il primo presidente americano in carica ad essere entrato in territorio nordcoreano a parlare direttamente con il dittatore in carica, Kim Jong-un.

Altri due presidenti statunitensi, Jimmy Carter e Bill Clinton, erano entrati in Corea del Nord, ma dopo il loro mandato e per incontri informali. La presenza di Trump è completamente differente, perché il presidente Usa è il primo che sta affrontando il dialogo sulla denuclearizzazione nordcoreana direttamente con la controparte. Finora questi negoziati, dall’era Bush a quella Obama, erano stati gestiti da complessi incontri multi-laterali, come i Colloqui a Sei, con tutte le potenze regionali coinvolte, dopo i quali la crisi nucleare nordcoreana è peggiorata e non migliorata. Dopo i Colloqui a Sei, infatti, sono stati condotti i test nucleari. Trump preferisce, come è tipico del suo stile, gestire la trattativa faccia a faccia, senza intermediari, da venditore quale è. Avrà successo? Non avrà successo? Non lo sappiamo ancora. Il problema sul tavolo è uno solo: la bomba atomica nordcoreana, l’arma totale nelle mani di un regime autocratico, ideologico e instabile. Il successo si misurerà se il regime sarà incentivato (o costretto) a disfarsene in modo permanente e verificabile. Intanto la visita di Trump è un cambio di passo considerevole rispetto ai fallimenti del passato recente.

La visita di ieri è storica anche per un altro motivo: si tratta del primo vertice trilaterale, con Kim Jong-un, Donald Trump e il presidente sudcoreano Moon Jae-in, che tanto sta facendo per portare un po’ di disgelo nella regione. In effetti, il rischio di una Corea del Nord nucleare lo corre soprattutto la Corea del Sud. E sarà sempre la Corea del Sud a dover gestire (o subire, a seconda di come andrà a finire) un’eventuale riunificazione della penisola coreana. Moon Jae-in, dopo la terribile crisi militare del 2017, aveva invitato la Corea del Nord a partecipare alle Olimpiadi invernali. La squadra olimpionica coreana era unificata, per una volta, con atleti sia del Nord che del Sud. Trump sta facendo da mediatore, per permettere ai due di trovare un punto di incontro. Ma, contrariamente ai suoi due predecessori, non intende coinvolgere parti terze: non la Russia, con cui ci sono rapporti di amore-odio sull’altro grande dossier (l’Iran), non la Cina con cui è ancora in corso un conflitto commerciale (e dalla cui influenza spera di poter sottrarre il regime nordcoreano) e neppure il Giappone, che pure è direttamente minacciato, ma non è Corea.

Questo modo di procedere dice molto della politica estera di Trump: soluzioni locali per crisi locali, un metodo fondato sull’incontro diretto, sull’arte personale di fare affari (“The art of deal”). E infine, ma non da ultimo: l’uso esplicito della minaccia militare per indurre la controparte ad accettare la trattativa. Se non ci fosse stata tutta la dimostrazione di potenza militare in Asia nordoccidentale, con un imponente schieramento di portaerei, sottomarini nucleari e bombardieri strategici, probabilmente non si sarebbe neppure arrivati ai sorrisi e alle strette di mano che abbiamo visto ieri in tutto il mondo.

Aspetto molto meno importante, ma altrettanto notevole: l’incontro di ieri è un’altra sconfitta per i media faziosamente schierati contro Trump. La seconda sconfitta in due anni: nel 2017 rilevavano un crescendo della pressione militare e accusavano Trump di voler la guerra. E vennero smentiti, perché subito dopo iniziò la trattativa. Nel 2019, dopo il fallimento dei colloqui di Trump e Kim a Hanoi, in febbraio, davano per morto il dialogo sulla denuclearizzazione, quindi erano subito pronti a puntare il dito sulla diplomazia trumpiana, condannata come “inconcludente”. Ma, evidentemente, il dialogo non era affatto morto. Se dovesse aver successo, lo stesso modello sarà quasi certamente applicato all’altro dossier nucleare, quello dell’Iran. Altra crisi su cui i media gridano alla provocazione americana e al rischio di guerra.

E se i nuovi colloqui non dovessero portare a nulla? Probabile, vista, soprattutto, la natura ideologica della Corea del Nord, ultimo regime comunista rimasto allo stalinismo puro. Trump, però, ha dimostrato la sua buona fede nel cercare di tener vivo il dialogo e preservare la pace. Tanto il Nobel lo daranno a Greta.