Trump ci chiede di andare in Siria, contro i nostri interessi
Washington attende risposte dalla politica italiana nell’ambito degli affari internazionali e della Difesa e Sicurezza. Non solo attende risposte sugli F-35 e sul Venezuela, ma anche sulla Siria. Perché gli Usa hanno chiesto anche all'Italia di schierare forze nell'Est della Siria, dopo il ritiro americano. Ma la cosa collide coi nostri interessi.
Washington attende risposte dalla politica italiana nell’ambito degli affari internazionali e della Difesa e Sicurezza: dall’acquisizione dei cacciabombardieri F-35 all’impegno in Afghanistan e Siria fino al posizionamento di Roma nella crisi venezuelana.
Nel settore della Difesa, se è evidente che non è più possibile rinviare all’infinito decisioni e pagamenti dei contratti per il nuovo e discusso aereo statunitense è altrettanto evidente che la richiesta di Washington di inviare truppe italiane in Siria va valutata con estrema attenzione per le criticità non certo secondarie che comporta. Come ha ricordato l’8 giugno il Corriere della Sera, da alcune settimane è in corso un pressing intenso ma a bassa visibilità da parte degli Stati Uniti per indurre l’Italia a inviare un contingente militare nei territori siriani orientali occupati dalle Forze Democratiche Siriane (FDS), milizie curdo-arabe sostenute dalla Coalizione. In quei territori erano presenti circa 2mila militari USA in fase di dimezzamento e vi sono contingenti britannici e francesi.
Proprio il ritiro parziale dei militari americani, voluto da Trump in contrapposizione al Pentagono, induce Washington a chiedere un maggior ruolo agli alleati Nato. Finora il governo non ha dato risposte e del resto sono ben altre le questioni che in questi giorni tengono impegnato l’esecutivo, né è plausibile che una simile decisione venga presa dal solo ministro della Difesa. Come ha ricordato il Corriere, il ministro degli Esteri, Moavero Milanesi, ha fatto presente che tale missione (anche se limitata a forze d’addestramento per le milizie curde siriane) potrebbe non essere opportuna tenuto conto che Roma schiera 1.100 uomini col casco blu in testa nel vicino Libano. Una risposta di comodo per glissare elegantemente su un nuovo impegno militare, non previsto dal decreto di rinnovo delle operazioni oltremare? Non proprio se si considera che i nostri caschi blu in Libano operano in un’area controllata al 100% da Hezbollah, movimento e milizia scita che in Siria è alleata di ferro del governo di Bashar Assad. Un governo che può non piacere, ma legittimo per il diritto internazionale e che considera “invasori” le truppe della Coalizione presenti sul suo territorio. Una definizione politicamente e giuridicamente corretta, quella di Damasco, dal momento che le uniche forze straniere che i governativi siriani hanno invitato sul loro territorio sono quelle russe e delle milizie iraniane.
Facile quindi intuire che l’invio di “truppe d’occupazione” nell’ambito di un’operazione non legittimata dalla comunità internazionale, in una regione siriana, senza il via libera di Damasco, rischierebbe potenzialmente di esporre anche i caschi blu di Unifil a possibili ritorsioni o rappresaglie. Anche perchè le forze USA sono già intervenute in più occasioni con raid e azioni a fuoco contro le forze siriane governative. Del resto le controindicazioni ad accettare la richiesta di Washington sono tante, i vantaggi nulli se non quello di assecondare ancora una volta il nostro potente alleato. Già coi recenti governi di centrosinistra l’Italia ha aderito alla Coalizione anti Isis, ma con un profilo “no-combat” (aerei disarmati e militari impegnati solo in compiti di presidio o addestramento) ed esclusivamente in territorio iracheno, nel rispetto del diritto internazionale. L’Iraq infatti ha chiesto aiuto e presenza di truppe della Coalizione sul suo territorio, a differenza della Siria.
La presenza di militari anglo-americani, francesi e turchi in Siria costituisce quindi una violazione del diritto internazionale e un “atto di guerra” a cui il governo siriano potrebbe prima o poi rispondere con azioni militari. Non sfugge infatti che la presenza della Coalizione non ha certo più il compito di sconfiggere uno Stato Islamico ormai annientato o comunque riportato allo “stato insurrezionale primario”, cioè a poter compiere solo attentati e imboscate. Le forze alleate presidiano i territori a est dell’Eufrate ricchi di gas e petrolio semplicemente per impedire ad Assad di riprenderne il controllo e il ritiro almeno parziale degli USA col tentativo di rimpiazzarle con truppe europee conferma la volontà di Washington di coinvolgere maggiormente gli alleati in prima linea.
Una posizione che schiera ancora una volta le potenze occidentali al fianco dei ribelli jihadisti esponendole al rischio di un confronto militare con la Russia ancora presente in forze in Siria. E’ evidente che Roma non ha oggi alcun interesse a risultare potenza occupante in Medio Oriente, a schierare truppe in violazione del diritto internazionale o a creare presupposti di ostilità nei confronti di Mosca e Damasco, tenuto conto che proprio i servizi segreti di Assad costituiscono la principale fonte di informazioni circa i “foreign fighters” qaedisti e dell’Isis che cercano di infiltrarsi in Europa.