Tripoli si dà una scossa e rischia di spaccarsi
Dopo la cacciata del premier Alì Zeidan, la Libia rischia una nuova guerra civile. Questa volta alimentata dalla voglia di secessione della Cirenaica dal governo di Tripoli. Ed è in Cirenaica che si concentra l'industria petrolifera.
La “scossa in Libia” chiesta dal ministro degli Esteri, Federica Mogherini, c’è stata per davvero ma non certo nella direzione auspicata da Roma. Nella conferenza internazionale sulla Libia tenutasi la scorsa settimana a Roma la Mogherini aveva detto chiaramente che “o in Libia c'è una scossa" che renda possibile e concreto il sostegno internazionale, "o c'è il rischio che la situazione peggiori". Tripoli deve creare le "giuste condizioni politiche attraverso un dialogo inclusivo" che consenta alla comunità internazionale di mettere in campo aiuti concreti e principalmente "tecnici", aveva detto la titolare della Farnesina alla quale il ministro degli Esteri libico Mohamed Abdelaziz rispose sottolineando che “se la Libia fallisce, i libici non saranno gli unici responsabili. Sarà un fallimento di tutti".
Purtroppo in pochi giorni la situazione è davvero peggiorata con il premier Alì Zeidan esautorato e fuggito a quanto pare in Germania con un aereo privato per sfuggire a un ordine della giustizia di Tripoli che gli vietava di lasciare il Paese per rispondere di appropriazione indebita di fondi pubblici. Zeidan è stato sfiduciato l’11 marzo dal Congresso generale nazionale (Cng), il parlamento provvisorio libico, e al suo posto è stato nominato premier il ministro della difesa, Abdullah al Thinni, con un incarico ad interim di 15 giorni in attesa che il Congresso nomini un nuovo governo che dovrà condurre il Paese alle elezioni probabilmente in giugno.
Zeidan aveva del resto già perso da mesi la maggioranza parlamentare a causa del crescente consenso dei Fratelli Musulmani che sono riusciti ad arruolare alla causa anti governativa molti deputati eletti come indipendenti e che martedì hanno consentito di raggiungere i 120 voti necessari a far cadere il governo.
Ma gli equilibri parlamentari non rappresentano certo il problema più grave per la nostra ex colonia in balìa di milizie tribali, trafficanti di armi ed esseri umani e sconvolto di secessionismi affermatisi nel Fezzan e in Cirenaica. Due elementi hanno preceduto e forse accelerato la caduta di Zeidan che porta ancora una volta la comunità internazionale a non avere referenti credibili a Tripoli. Il primo è rappresentato dal rapporto dell’ONU che rivela come le armi trafugate dalle caserme di Gheddafi siano oggi le principali protagoniste di tutti i conflitti in atto dalla Siria a Gaza al Sahel. Il secondo è costituito dalla vicenda della petroliera nord coreana Morning Glory che nonostante l’intervento della raffazzonata marina libica è riuscita a salpare dal porto petrolifero di Sidra con bordo 350 mila barili di greggio acquistati (pare per 36 milioni di dollari) dai secessionisti della Cirenaica che controllano da mesi alcuni importanti terminal petroliferi.
L'idea di vendere greggio indipendentemente dalle autorità di Tripoli era stata già avanzata nei mesi scorsi ma si è concretizzata solo sabato quando Abdo Rabbo Al Barassi, premier dell'autoproclamato governo della Cirenaica, ha annunciato l'avvio della commercializzazione autonoma del petrolio durante una cerimonia. Si tratta della prima operazione di export orchestrata dall'Ufficio Politico di Barqa (nome arabo della Cirenaica), che ha dichiarato nei mesi scorsi l'autonomia della regione ed è stato istituito da Ibrahim Jadran, ex capo miliziano durante la rivolta che aveva deposto Gheddafi. Dopo la guerra del 2011 era diventato responsabile delle guardie di sicurezza di alcuni impianti petroliferi che ha poi organizzato in milizia assumendo il controllo diretto dei terminal chiedendo di trattenere una quota maggiore dei proventi dell'export e accusando il governo centrale di corruzione sulla vendita di greggio.
La risposta di Tripoli queste minacce si è sempre limitata a ultimatum regolarmente scaduti e rinnovati con sempre minore credibilità. Nei giorni scorsi sono stati segnalati scontri tra forze governative e milizie della Cirenaica a Sirte ma mercoledì il presidente del Congresso, Nuri Abu Sahmain, ha dato due settimane i ribelli per sgomberare i terminal minacciando l’ennesimo intervento di un esercito libico che nei fatti non sembra neppure esistere considerato che non ha neppure il controllo della capitale. Domenica Sahmain aveva annunciato la formazione di una nuova forza militare costituita da unità dell'esercito libico e milizie di diversa provenienza affiliate al governo, incaricata di mettere fine al blocco dei maggiori porti per riportarli sotto il controllo delle autorità di Tripoli che dovranno quindi proteggere in futuro gli impianti petroliferi.
L’ultimatum, se verrà fatto rispettare, rischia di scatenare una guerra che non solo lacererà ulteriormente il Paese ma potrebbe danneggiare i terminal petroliferi bloccando un export di greggio già ridotto al lumicino con appena 240 mila barili al giorno contro 1,6 milioni dell’epoca di Muammar Gheddafi. La crisi petrolifera ha messo in ginocchio l'economia libica poiché l’export energetico garantisce al governo di Tripoli il 95% delle sue entrate necessarie a stipendiare milizie e dipendenti pubblici limitando il caos che regna nel Paese. Senza quel denaro nessun governo avrà la capacità di tenere insieme i pezzi del Paese mentre la radicalizzazione degli scontri tra milizie della Tripolitania e della Cirenaica finirà presumibilmente per rafforzare le istanze indipendentistiche che stanno indirettamente aiutando il radicarsi dei gruppi islamisti e qaedisti sempre più forti in Cirenaica e ai quali vengono attribuiti gli omicidi di funzionari dello Stato che quasi ogni giorni insanguinano Bengasi. Di fronte al rischio di un tracollo totale della Libia gli Stati Uniti hanno ottenuto da Madrid il permesso di rafforzare da 500 a 850 effettivi l’unità speciale di marines schierata a Moròn (e da lì “proiettabile” nella base siciliana di Sigonella) specializzata negli interventi di evacuazione del personale diplomatico e civile dalle aree di crisi.