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ARABIA SAUDITA

Tragedia alla Mecca, nuova lite fra Teheran e Riad

La lista ancora provvisoria dei pellegrini musulmani morti in una calca a Mina, nei pressi della Mecca, sale a 769 morti e più di 800 feriti. Fra questi si contano anche 134 iraniani. Il Gran Muftì Saudita parla di fatalità "incontrollabile per gli esseri umani", Ma Teheran punta il dito sulla monarchia saudita e chiede giustizia.

Esteri 27_09_2015
Ponte di Jamarat

La strage alla Mecca, durante lo Hajj, il pellegrinaggio musulmano, è stata un evento “incontrollabile per gli esseri umani”. Lo ha dichiarato ieri il Gran Muftì dell’Arabia Saudita, Abdulaziz bin-Abdullah al-Sheikh, ribadendo un concetto chiave della religione musulmana: non ci si può opporre al destino scritto da Dio. Ma difendendo anche la famiglia saudita che, dopo gli oltre 769 morti di giovedì scorso, stanno subendo un pesante attacco politico, soprattutto da parte dell’Iran.

Prima di tutto, è difficile rintracciare la causa della tragedia. Si è trattato di una catastrofica dinamica del caos, più che altro. Il tutto è avvenuto nella fase in cui i pellegrini lanciano sette pietre contro il più grande dei Pilastri di Jamarat, una simbolica lapidazione del demonio nel luogo in cui, secondo la tradizione, Satana avrebbe tentato Abramo.  Per avvicinarsi ai Pilastri, i fedeli passano dalla cittadina di Mina, a 4 km dalla Grande Moschea della Mecca. Per raggiungere ai pilastri i pellegrini devono attraversare il ponte di Jamarat, che è stato teatro di tante altre tragedie simili. Nello Hajj del 2004, per esempio, su quel ponte sono morte 251 persone. L’anno successivo, le autorità saudite avevano effettuato un primo lavoro per migliorare le condizioni di sicurezza, erigendo muri attorno ai pilastri in modo da far fluire meglio la folla dei pellegrini. Tuttavia, nel 2006, un incidente in una delle rampe di entrata del ponte aveva causato la morte di altri 345 pellegrini. Allora le autorità avevano speso altri 1,1 miliardi di dollari per rifare tutta la struttura, moltiplicando le rampe di entrata, costruendo ponti e passatoie su vari livelli sovrapposti e allargando il ponte di Jamarat fino a consentire il passaggio di 300mila pellegrini alla volta. Attualmente quello dei Pilastri di Jamarat non appare più come un semplice ponte, ma sembra un aeroporto internazionale. E allora, a questo punto, il destino (per usare il termine scelto dal Gran Muftì) ha colpito i pellegrini prima del ponte, dentro la cittadina di Mina, nel punto in cui due vie convergono (la 223 e la 204) e i pellegrini si amalgamano in un unico grande flusso. Qualcosa deve essere andato storto in questo punto. E migliaia di pellegrini hanno iniziato a calpestarsi e a cadere gli uni sugli altri. Sono morte più persone in questo singolo episodio, che non nei due grandi incidenti che avevano indotto le autorità saudite a spendere miliardi per il restauro del ponte di Jamarat: 769 vittime accertate, più di 800 feriti, molti dei quali versano in gravi condizioni. E la tragedia segue di appena due settimane quella dell'11 settembre, quando una gru è crollata sui pellegrini, provocando 107 morti. 

La spiegazione fatalista del Gran Muftì è convincente per molti musulmani di tutto il mondo. Ma non tutti si adeguano. L’Iran, soprattutto, ha subito il maggior numero di vittime (134 morti, bilancio ancora provvisorio) e vuole portare l’Arabia Saudita a cospetto di “corti internazionali” non ben specificate, per crimini contro i pellegrini sciiti, secondo quanto dichiara il procuratore generale di Teheran, Sayed Ibrahim Raisi. Nella capitale iraniana, centinaia di militanti islamici hanno marciato al grido di “morte ai Saud!”. L’ayatollah Alì Khamenei, Guida Suprema della Repubblica Islamica, ha lanciato sul suo account di Twitter l’invito (che sa di avvertimento) alla monarchia saudita ad “accettare la sua grave responsabilità per questo tragico incidente e prendere le necessarie misure basate sulla giustizia e il diritto”. Sull’account arabo della Guida Suprema gli utenti sciiti hanno mandato una serie di foto raccapriccianti delle vittime, usando l’ashtag “amministrazione fallita” (quella saudita, si intende). L’Iran chiede di partecipare all’inchiesta appena avviata dal ministero dell’Interno saudita, per accertare le responsabilità. Tutte le ipotesi, per ora, sono sul terreno e le teorie della cospirazione stanno moltiplicandosi, per cui Teheran vuol partecipare alla prossima investigazione. Il governo iraniano punta il dito soprattutto sul principe Khaled al-Faisal, ministro degli Interni.

I rapporti fra la Repubblica Islamica sciita e la monarchia degli al Saud (sunnita) non sono mai stati sereni. Ma non sono neppure mai stati tesi come in questi ultimi tre anni. Con la guerra in corso in Siria (che è soprattutto un conflitto fra una maggioranza sunnita e una minoranza di governo sciita) e quella scoppiata più recentemente nello Yemen, sauditi e iraniani stanno già combattendosi con conflitti “per procura” su territori di terzi. La tensione potrebbe ulteriormente peggiorare con l’accordo sul nucleare iraniano, che ha indotto i sauditi a rifornirsi di nuovi missili anti-missile Patriot e ha ventilato l’ipotesi di poter acquistare armi nucleari dal Pakistan. Infine, proprio in queste settimane, è anche scoppiata una nuova polemica religiosa sul film iraniano su Maometto, il più impegnativo e costoso della storia del cinema di Teheran, ma considerato dai sauditi “un’oscenità” e “un insulto a tutti i credenti”. Il Gran Muftì saudita, assieme alla Lega Islamica Mondiale, ha espresso una condanna definitiva, perché raffigurare il Profeta in qualunque forma è “un atto ostile all’islam” e il fatto stesso di aver girato un film, da parte del regime di Teheran, implica “degradare lo status del Profeta”.

La Mecca stessa, oltre ad essere un luogo santo in cui sciiti e sunniti pregano assieme, è stata teatro, già in passato, di violenti scontri fra gli sciiti iraniani e i sauditi. Il più celebre e drammatico avvenne nel 1987, quando lo scontro fra manifestanti sciiti iraniani e filo-iraniani e la polizia provocò la morte di 402 persone, fra cui 275 iraniani, 85 poliziotti sauditi e 42 pellegrini di altre nazionalità. Per rappresaglia, folle di militanti islamici iraniani attaccarono l’ambasciata saudita e quella kuwaitiana a Teheran e l’ayatollah Khomeini, nel suo ultimo anno di vita, istigò la rivoluzione in Arabia Saudita per rovesciare la monarchia. Anche se quest’ultima strage, avvenuta giovedì, non è il frutto di uno scontro armato, ma di un incidente, la condanna iraniana è nel solco di questa contrapposizione a Riad. Anche una tragedia come questa può dare adito a un nuovo capitolo del braccio di ferro fra le due sponde del Golfo.