Tolkien, le trincee, l'Epifania e la Befana
La festa dell'Epifania letta in parallelo al libro Lo Hobbit di Tolkien, Bilbo Baggins e Bard accostati ai Magi, la Prima guerra mondiale, la morale sull'economia, i ricordi personali e la leggenda della Befana. Una storia bellissima per il giorno dell'Epifania, scritto dalla più nota scrittrice italiana di Fantasy.
Il libro Lo Hobbit mi era stato regalato per Natale. «In a hole in the ground there lived a Hobbit», in un buco nella terra viveva uno Hobbit: questa è la prima riga. La prima cosa che da sempre mi viene in mente davanti alle parole "buco nella terra" sono le trincee della Prima guerra mondiale. Me le aveva descritte per primo mio padre, quando abitavamo a Trieste, io avevo cinque anni e il nostro cane correva felice dove il sangue era scorso e le ossa spezzate si erano mischiate con la terra.
Aveva usato quelle parole: buchi nella terra. Il fatto che nelle righe successive venga specificato che non si trattava di un buco brutto, sudicio, umido, pieno di vermi e intriso di puzza, aumenta l’assonanza, tanto più che i normali buchi nella terra, le normali caverne non sono sudice e intrise di puzza, perché dovrebbero? Lo erano le trincee. Questa storia straordinaria è nata nella mente di Tolkien mentre la sua anima agonizzava nelle trincee della Prima guerra mondiale, per esorcizzare il male che è stata quella guerra. I buchi nella terra sono diventate case di Hobbit, lindi luoghi di tepore invasi dal profumo del té.
Arrivai al punto fondamentale, che era l’Epifania. Mentre leggevo di un altro buco nella terra, questa volta una caverna enorme dove in un tanfo nauseante un drago dormiva su un fantastico mucchio d’oro, arrivò l’Epifania e i Magi giunsero dall’Oriente. I Magi sono raccontati solo nel Vangelo di Matteo. Non sono re, ma Magi, cioè grandi saggi con una tale conoscenza e tale saggezza da trascendere la materia. Divennero re nel Medio Evo e fu allora che si ammantarono dei loro nomi, Gasparre, Melchiorre e Baldassarre, e uno di loro ha avuto i caratteri somatici europei, uno quelli asiatici e uno quelli africani. Matteo non li specifica, come non specifica il loro numero. Dato che portano tre doni, si presume che siano tre. E ora arriviamo ai doni: mirra, per la sacralità della morte, incenso per la sacralità del rito e oro per la sacralità della vita. I Magi portano oro perché non è possibile nessuna vita senza la ricchezza, perché l’oro è bene, l’oro è il bene: il fantasma della fame e della miseria che scompaiono.
Nella venuta dei Magi quindi c’è lo stesso concetto presente nella mirabolante parabola descritta da Tolkien ne Lo Hobbit, la storia di Bilbo Baggins lo Scassinatore: quando è usata con generosità, con intelligenza, la ricchezza moltiplica il bene. Nelle trenta monete del traditore invece c’è il male. Nel Vangelo l’oro può essere bene o male perché è semplicemente un mezzo. Così nel racconto di Tolkien. Bilbo Baggins e Bard, il coraggioso arciere che con una freccia ereditata dai suoi avi uccide il drago, lo sanno: Bilbo usa la ricchezza per sperare di scongiurare una guerra, Bard per ridare la dignità al suo popolo martirizzato dal drago. Gandalf li benedice entrambi per la loro scelta.
Quando l’oro è un mezzo, è magnifico.
Quando è un fine è una delle cause del male del mondo e della distruzione degli uomini e della terra. È più facile che una cima passi attraverso la cruna di un ago che un avido arrivi in Paradiso.
L’avidità, l’accumulo, la ricchezza come fine e non come mezzo: questa è la via alla dannazione del drago Smaug, che distrugge, saccheggia e uccide per il discutibile piacere di dormire su un cumulo sempre più grosso di oro e di dolore. Dalle dimensioni di quel mucchio, dal ricordo della pena che è costato, lui ricava l’orgoglio della propria forza, della propria capacità di spargere desolazione e la mente di Smaug è tutta lì. Quell’oro gli è necessario. Senza non può vivere esattamente come alla regina di Biancaneve è necessario essere la più bella del reame. O come i grandissimi finanzieri attuali non possono vivere se i numerini sul computer che rappresentano la loro ricchezza non aumentano.
L’economia è morta assassinata dalla finanza. La Borsa nata per lo scopo intelligente di portare denaro dove serviva è diventata lo spazio della speculazione. Improvvisamente tutto crolla e la gente fa gli scatoloni. A Davos, ridente cittadina della Svizzera Tedesca è stato stabilito che la “pandemia” sia l’imperdibile occasione del Gran Reset, la distruzione della civiltà attuale e la creazione di un’altra, un’economia completamente digitale.
Quanto peso ha avuto nel decidere la Prima guerra mondiale l’alta finanza? Quanto denaro, quanto oro ha guadagnato il drago mentre i soldati marcivano vivi nella trincee perché le loro vedove si dannassero la loro vita senza di loro?
Ma poi sono arrivati magi con l’oro, la mirra e l’incenso. Secondo una leggenda russa i Magi erano quattro: il quarto veniva da Mosca, portava giocattoli, ma si perse nella neve e da allora vaga da solo per regalarli a tutti i bimbi che incontra. Anche secondo mio padre i Magi erano quattro. Il quarto aveva portato il burro. Mio padre apparteneva all’ultima generazione che capiva la sacralità del burro. Noi annegati nel consumismo, degli orrendi allevamenti di massa, consideriamo il burro una cosa qualsiasi che qualsiasi supermercato ti vende per una piccola cifra. In passato il burro era la ricchezza per antonomasia, messo sul pane col miele era il cibo su di lei.
In inglese arcaico burro vuol dire d’oro. Butterfly, farfalla, letteralmente mosca di burro, in realtà vuol dire mosca d’oro. Buttercup, ranuncoli, letteralmente coppa di burro, in realtà è coppa d’oro. In Harry Potter butterbeer, birra di burro, sarebbe dovuta essere tradotta con birra d’oro. Quando sono andata in Etiopia, nella regione del Sidamo, luogo magnifico con un’economia basata sulle vacche, di nuovo ho trovato la sacralità del burro. Il quarto re magio aveva un dono prezioso, l’abbondanza.
Come tutti sanno, i re Magi si fermarono nella casa di una povera vecchina e le raccontarono della loro meravigliosa missione, e del Bambino che stava per nascere sotto una stella che li avrebbe guidati fino da lui. Anche lei quindi decise di fare un dono al Bambino, i suoi magnifici biscotti. Però era povera, così dovette correre dai vicini perché le regalassero chi un po’ di legna, chi un po’ di farina, chi un po’ di zucchero e chi un po’ di cannella perché lei potesse fare biscotti. Quando finalmente i biscotti furono pronti, i Magi ormai erano troppo distanti e lei non riuscì a raggiungerli. Così perse la strada. Da allora gira per le case e distribuisce a tutti i bambini che incontra i suoi doni e dato che la parola Epifania per i bimbi è troppo difficile, loro la chiamano Befana.