Terza Intifada, l'escalation jihadista
Mentre continuano gli agguati all’arma bianca, si registrano altri attacchi a un luogo sacro quale la Tomba di Giuseppe e si aggiungono gli appelli dei gruppi più estremisti della jihad internazionale, fra cui l’Isis. E a Gerusalemme torna il muro, dopo mezzo secolo, anche se “temporaneo”.
Segnali inquietanti di escalation in Israele, nel pieno della nuova “Intifada dei coltelli”. Mentre proseguono gli agguati all’arma bianca ai danni di civili, soldati e poliziotti israeliani, oltre alle inevitabili risposte delle forze di sicurezza, continuano gli attacchi ai luoghi sacri e si aggiungono gli appelli dei gruppi più estremisti della jihad internazionale, fra cui l’Isis. E a Gerusalemme torna il muro, anche se “temporaneo”.
Alla vigilia del “venerdì della collera”, 17 ottobre, proclamato dal partito islamista Hamas, un centinaio di palestinesi ha provocato un incendio alla Tomba di Giuseppe, a Nablus. Si tratta di una città sotto il controllo dell’Autorità Palestinese (Anp), ma il luogo sacro sia a ebrei che musulmani è stato finora considerato una zona franca, in cui anche gli ebrei potevano recarsi in preghiera. Non così dopo l’attacco incendiario, dopo il quale è stata chiusa. Immediatamente dopo l’assalto, un gruppo di trenta ebrei chassidim Breslav hanno tentato di raggiungere la tomba, ma sono stati aggrediti da una folla palestinese e da poliziotti dell’Anp in abiti civili. Circondati e picchiati, gli ebrei hanno rischiato il linciaggio (cinque hanno subito gravi ferite) e sono stati salvati solo dall’intervento dell’esercito israeliano. Che però li ha successivamente arrestati, per violazione del divieto a recarsi alla Tomba di Giuseppe. Il danneggiamento del luogo sacro è stato condannato da entrambe le parti. Dore Gold, portavoce del ministro degli Esteri israeliano ha dichiarato che l’assalto "è stato compiuto solo perché è un luogo dove gli ebrei pregano". Secondo Gold, il fatto dimostra "cosa accadrebbe se i luoghi santi a Gerusalemme fossero nelle mani della leadership palestinese". "Solo Israele - conclude - può proteggere i luoghi santi di tutti a Gerusalemme". Anche Abu Mazen ha stigmatizzato l’assalto, definendolo “un atto illegale contrario alla nostra cultura, religione e morale" e ha annunciato l’apertura di un’inchiesta. Però, circa 48 ore dopo, cioè l’altro ieri notte, altri palestinesi hanno lanciato bombe molotov contro la Tomba di Giuseppe, dimostrando di ignorare completamente le dichiarazioni del presidente dell’Anp. E’ un altro segnale che l’Intifada sta sfuggendo completamente al controllo politico, diventando un conflitto religioso.
Lo dimostrano anche le dichiarazioni di Fratelli Musulmani, Hamas e Isis, per una volta tutti dalla stessa parte. Dice lo sceicco al-Qaradawi, guida spirituale dei Fratelli Musulmani e presidente dell’Unione internazionale degli studiosi musulmani: “è un dovere per ogni credente di sostenere gli attacchi contro gli ebrei perché Gerusalemme è in pericolo, la vogliono giudaizzare”. Hamas, che si definisce come una costola della Fratellanza in Palestina, è la prima organizzazione ad aver incitato a quella che definisce la “rivoluzione dei coltelli”. Su Internet, Hamas ricorre ad ogni mezzo, anche a veri e propri “tutorial” su come accoltellare passati ignari, per istigare alla violenza di strada. E ieri è tornata a tuonare, per bocca del suo dirigente Fathi Hammad: “Questa intifada continuerà fino alla liberazione di Gerusalemme, della Cisgiordania e della intera Palestina. Sosterremo l'intifada di Gerusalemme col nostro lavoro e col nostro sangue”. E a queste voci locali si unisce anche la branca egiziana dell’Isis, Ansar Beit al Maqdis, che opera nel Sinai. Con un video di 9 minuti, segnalato da Site (il sito di monitoraggio della propaganda jihadista sul Web), ha lanciato l’appello per la Jihad contro Israele. Il video, intitolato “Messaggio ai Mujahidin di Gerusalemme, decapitate gli ebrei”, contiene anche minacce contro Abu Mazen, la Lega Araba e lo stesso Hamas che non sarebbero in grado di “difendere i palestinesi”. Come prevedibile, dunque, l’Isis sta iniziando a mettere la sua bandiera sulla nuova guerriglia, approfittando dell’altissimo valore simbolico di Gerusalemme. E gli altri attori locali rischiano di esserne scavalcati.
Il bilancio delle vittime continua ad allungarsi, nel frattempo. Sono stati uccisi 8 israeliani e altri 30 sono stati feriti. Più incerto il bilancio delle vittime da parte palestinese. L’Anp, dal canto suo, denuncia 44 morti e 1800 feriti. L’ultimo grave attentato è avvenuto a Beersheva, nel Sud di Israele, dove un beduino del villaggio di Hura (non un palestinese, dunque), armato di coltello, ha fatto irruzione nella locale stazione dei bus, provocando la morte di un soldato di leva di 19 anni e il ferimento di altre sei persone. L’attentatore è stato a sua volta ucciso dalla polizia. Ma c’è andato di mezzo anche un immigrato eritreo, che non c’entrava nulla, scambiato per un terrorista e linciato dalla folla. Le autorità israeliane parlano, in questo caso, di un episodio di “follia collettiva”, causata dal terrore dei continui agguati.
E proprio per cercare di arginare l’ondata di attentati, le autorità di Gerusalemme hanno iniziato la costruzione di una barriera in cemento “temporanea” per dividere il quartiere arabo di Jabel Mubaker da quello ebraico Amon HaNaziv. La barriera giunge fino al posto di blocco con Talpiot Est, un altro quartiere ebraico. Si tratta della prima volta dal 1967, quando la città venne conquistata da Israele nella Guerra dei Sei Giorni, che Gerusalemme viene divisa da un muro. Allora segnava il confine fra Israele e Giordania e correva ai margini della Città Vecchia. Assieme al Muro di Berlino era una delle due barriere più famose del mondo di allora. Il suo abbattimento, quasi mezzo secolo fa, fu uno dei simboli più potenti della vittoria israeliana: gli ebrei, da allora in poi, poterono recarsi liberamente a pregare al Muro Occidentale. La costruzione di una nuova barriera, anche se molto più limitata e geograficamente collocata parecchio più a Est, è comunque un trauma e non ha mancato di suscitare le perplessità nello stesso governo di Netanyahu, vincente nelle ultime due elezioni anche per il suo programma di una “Gerusalemme una e indivisibile”. Il premier stesso ha posto il veto alla costruzione di altri tratti di barriera. Per smorzare i toni polemici e smentire il carattere politico del muro, sia la polizia che il sindaco Nir Barkat, precisano che: “Questi blocchi hanno l’unico fine di garantire la sicurezza” e sono fatti in modo da poter essere rimossi in ogni momento.
Langue la diplomazia internazionale, anche se non mancano gli incidenti. Il ministero degli Esteri israeliano ha convocato l'ambasciatore francese Patrick Maisonnave in quello che è stato definito un "confronto aspro" dopo la proposta francese di osservatori internazionali sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme. Quella di Parigi è una proposta che risponde a un appello di Abu Mazen ed è considerata inaccettabile da Israele, che denuncia come l’inizio delle ostilità sulla Spianata sia stato provocato dalle milizie di volontari palestinesi, dunque rivendica il proprio diritto di continuare a controllarne gli accessi. Gli Stati Uniti, per bocca del segretario di Stato John Kerry, sostengono Israele contro la proposta francese. E però gli Usa continuano a mostrarsi relativamente disinteressati alla vicenda, come è dall’inizio dell’Intifada. Anche l’appello di Kerry, lanciato ieri a Madrid, alla vigilia dell’incontro fra i leader mediorientali, suona già rinunciataria in partenza: “E’ vitale che i leader israeliani e palestinesi facciano chiarezza sullo status dell'area intorno alla moschea di al-Aqsa. Non ho aspettative specifiche se non che cerchino di fare progressi, e questo dipenderà dalle conversazioni fra loro”. Tradotto dal linguaggio diplomatico: “sono fatti vostri”.