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APPROPRIAZIONE INDEBITA

Su quel corpo oltraggiato si può almeno piangere

Avere un corpo su cui piangere e non averlo non sono la stessa cosa. Riaverlo per un ultimo abbraccio è comunque un dono.

Cos’hanno trovato, alla fine? Il corpo di Yara oppure lei, Yara? Nell’ultimo film dei Fratelli Coen la ragazzina si rifiuta di baciare il cadavere del padre: lui non è più qui, dice, degnandolo appena di uno sguardo.

Ma la mamma di Yara direbbe lo stesso, lei che più volte ha invocato un corpo su cui piangere?
E dunque: è solo il corpo di Yara, oppure quel corpo è Yara? Non sono questioni teoriche: c’è di mezzo tutta la dignità della vita. Ma noi non siamo più in grado di rispondere a questa domanda: abbiamo lasciato ad altre epoche, ad altri secoli la risposta.

Se Cartesio avesse ragione (e con lui i Fratelli Coen) quello ritrovato sarebbe solo un corpo bugiardo, che nulla conserva della vita che un tempo lo animò. Corpo e anima, corpo e psiche, corpo e mente apparterrebbero a due grandezze non commensurabili.

Ma per una madre avere un corpo su cui piangere e non averlo non sono la stessa cosa. Sarà pure un corpo senza vita, ma è ben diverso dal nulla, dal Grande Buco Nero nel quale tre secoli di cultura mortifera ci hanno detto che finiremo.

Perché portiamo fiori sulle tombe dei nostri cari defunti? Solo perché, come dice qualcuno, è tutto quello che ci resta di loro? Falso. Di loro ci resta molto di più.
Di fronte alla tomba della madre Roland Barthes, il grande critico, si sente stupido perché, non avendo la fede, non può pregare. Ma perché noi giungiamo fin lì, a quella tomba, e sistemiamo i fiori nel vaso, e puliamo la lapide dalla polvere o dalla terra, se in tutto questo non c’è una preghiera? Anche se ci diciamo atei?

Nessuno, a meno che non si trovi in stato confusionale, può parlare soltanto con un mucchio di polvere e di ossa, o con una povera carne straziata. Confusamente, balbettando (perché tre secoli di cultura mortifera ci hanno portato via anche le parole) noi sappiamo che quella polvere non ha cancellato la presenza della persona amata.

Per questo il Cristianesimo, nel Credo, non cita la sopravvivenza dell’anima bensì la resurrezione della carne. Non è un’invenzione bizzarra, ma un concetto nato dall’ascolto profondo della nostra natura.

Ho conosciuto, anche da molto vicino, diverse storie di madri e padri colpiti dalla più terribile delle sventure, cioè la morte di un figlio giovane. Nessun dolore può essere paragonabile a questo.
Con una di queste mamme parlai a lungo. Suo figlio era annegato e per tre giorni il suo corpo era stato cercato invano. Quante cose erano passate per la testa di quella mamma durante quei tre giorni e quelle tre notti! Quanti sussulti aveva dovuto reggere il cuore di quella donna! Ma la cosa più terribile era che quel corpo, che lei aveva partorito e poi nutrito, pulito, vestito, baciato, adesso era irraggiungibile, si era staccato da lei definitivamente.

L’iconografia cristiana rappresenta con geniale realismo questo dramma nella figura della Pietà, dove Cristo morto giace di traverso sul grembo di colei che lo aveva messo al mondo, e che adesso non potrà più riprenderselo.

Se però il corpo del figlio morto è vicino al nostro, almeno potremo bagnarlo con le nostre lacrime, riscaldarlo con il nostro pur tardivo abbraccio. La pietà è questo dono estremo, quest’ultima carezza. I tre giorni che quella mamma trascorse senza suo figlio avrebbero potuto essere per lei la più tremenda delle punizioni, invece furono confortati dal pensiero che l’acqua nella quale il povero ragazzo si trovava era un segno d’amore: un abbraccio prenatale, la carezza di Chi, a differenza della piccola madre carnale, poteva - Lui sì - riprendersi indietro il figlio, e custodirlo per sempre. Dio, che è Padre ma anche (come diceva Papa Luciani) Madre.

Tre mesi è durato il dolore indicibile della mamma di Yara. L’altro durerà per sempre, mentre questo è finito. Adesso Yara (la sua presenza, e non semplicemente il suo simulacro) è di nuovo con lei e con il suo papà.
Sono stati tre mesi assurdi, tre mesi di fantasmi, di sobbalzi improvvisi e immotivati, di notti insonni.
In questi tre mesi mi sono spesso domandato cosa avrei detto, cosa avrei fatto se quello che è accaduto ai genitori di Yara fosse accaduto a me. In fondo, poteva benissimo succedere a me. Non conosco i disegni di Dio, ma per quello che mi riguarda è, in fondo, la stessa cosa. Ogni volta che nostro figlio esce di casa dovremmo ricordarci che nulla è scontato, che nulla va da sé, e ogni volta che torna e ci dice «ciao» dovremmo, magari in un sospiro, dire un «grazie»: a Dio, o a Maria, o a quella Cosa che non conosciamo ma di cui sappiamo l’esistenza, come la sapevano le donne dei marinai - mogli o madri o amanti o sgualdrine che fossero - quando la nave dei loro uomini rientrava in porto dopo una tempesta.

Un figlio non è una proprietà privata. Non è «nostro» come può essere nostra un’automobile, o una casa. E nemmeno come lo possono essere un dito, una gamba. Un essere umano che nasce non è un fiocchetto rosa o azzurro da attaccare (se c’è ancora chi lo fa) sopra i campanelli di casa, da basso. Un essere umano che nasce è un dono per tutto il mondo. E quando muore, specialmente se muore a tredici anni, è una tragedia per tutto il mondo.

Ma riaverlo per l’ultima volta tra le braccia è comunque un dono. Per questo credo che, nel dolore, la mamma di Yara possa essere almeno un po’ contenta. Anche se oggi hanno fine tutte le ultime residue irrazionali speranze, Yara è qui, è qui la sua presenza, e non c’importa se l’anima è volata via o se aleggia qui intorno: lei è qui, e noi la riabbracceremo, e rivedremo il meraviglioso sorriso dei suoi occhi.

Dire che quel sorriso «è spento per sempre» non sarebbe altro che l’ultimo tradimento. Ma, del resto, chi lo dice non lo pensa quasi mai sul serio, e sotto sotto si macera nell’inconfessabile speranza che sia vero il contrario.

Il Giornale, 28 febbraio 2011