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STATI UNITI

Stop a Johnson&Johnson, altra crepa nel messianismo vaccinale

La Food and Drug Administration, l’ente americano per i farmaci, ha deciso la sospensione del vaccino Johnson&Johnson. La causa: le reazioni gravi, legate a coaguli di sangue, manifestatesi entro due settimane dalla somministrazione in sei donne di età compresa tra i 18 e i 48 anni. In Europa, l’Ema temporeggia sul nesso causale, come aveva inizialmente fatto con AstraZeneca. La realtà è che per i vaccini anti-Covid in commercio sono stati “bruciati” i tempi. Serve una migliore farmacovigilanza. E dall’Università del Queensland arriva un monito rispetto alla strategia vaccinocentrica.

Attualità 14_04_2021 English

Come per ogni vaccino per il Covid, anche per il prodotto della multinazionale americana Johnson&Johnson negli ultimi giorni, in coincidenza con l’approvazione dell’Ema e quindi dell’Aifa, era stato creato un clima di febbrile attesa. Alcuni aspetti di questo vaccino sembravano renderlo molto appetibile, a partire dal fatto che si tratta di un monodose, con un’unica somministrazione. Aggiungiamo il fatto che non è vincolato a fasce di età e, anche a seguito dello spostamento di AstraZeneca agli ultrasessantenni, sembrava essere il vaccino per la mezza età o addirittura per i giovani. In Europa erano attese nelle prossime settimane 200 milioni di dosi di questo vaccino.

Martedì, tuttavia, è arrivata la doccia fredda. La Food and Drug Administration, l’ente nazionale americano per l’autorizzazione e il monitoraggio dei farmaci, ha deliberato la sospensione delle somministrazioni di Johnson&Johnson con effetto immediato. La decisione è stata presa a seguito delle reazioni gravi sviluppatesi in sei donne di età compresa tra i 18 e i 48 anni nelle due settimane successive alla somministrazione del vaccino. Le reazioni erano legate a fenomeni di coagulazione sanguigna, come per AstraZeneca, che tra l’altro non è ammesso negli Stati Uniti.

L’annuncio del provvedimento americano avrà anche delle ripercussioni inevitabili in Europa. L’Agenzia europea per i medicinali ha dichiarato che “al momento non è chiaro se esista un nesso causale tra la vaccinazione con il farmaco contro il Covid-19 di Johnson & Johnson e i casi di coaguli di sangue”. Una formulazione che abbiamo già visto per AstraZeneca, prima che il 7 aprile scorso il comitato per la sicurezza dell’Ema dichiarasse che “i coaguli di sangue insoliti con piastrine basse” - la stessa reazione riscontrata in America che potrebbe essere collegata al vaccino di J&J - debbano essere elencati come effetti collaterali molto rari di Vaxzevria (il nuovo nome di AstraZeneca) e parlasse di un “legame” con il vaccino, pur ribadendo che “i benefici della vaccinazione superano i rischi ad essa connessi”.

L’allarme che in America è nato per gli effetti collaterali del vaccino J&J dovrebbe comunque portare ad alcune riflessioni. Qualcuno si chiederà se è normale che tutti i vaccini finora utilizzati diano queste reazioni avverse.

In condizioni normali, quando un farmaco deve entrare sul mercato ci sono dei tempi ben precisi da rispettare e dei lavori da pubblicare e sottoporre alla revisione del mondo scientifico. Tale procedura non è stata tenuta in considerazione per i vaccini in arrivo, con la giustificazione dell’emergenza. Per autorizzare un farmaco, occorre che il produttore presenti prove precliniche di laboratorio e prove cliniche su esseri umani, di fase 1 (prove di sicurezza e tollerabilità di varie dosi su volontari sani), fase 2 e 3 (prove su gruppi di volontari in cui si confrontano efficacia ed effetti avversi in gruppi trattati o col farmaco o col placebo).

Per i farmaci normali sono richieste anche prove di farmacocinetica, vale a dire dimostrazioni di dove si accumulano nel corpo e di quanto tempo vi rimangono prima di essere eliminati; i vaccini invece sono esentati dalla presentazione di queste prove, per cui non si conosce il destino del vaccino nel corpo in cui è stato iniettato. Le fasi 2 e 3 di solito sono separate perché la fase 3 è fatta con numero più grande di volontari. Con i vaccini, i gruppi che sperimentano la fase 2 e soprattutto 3 devono essere abbastanza numerosi da consentire di vedere una differenza nel rischio di contrarre la malattia. Inoltre, studi sulla sicurezza in piccoli numeri non sono predittivi di eventi rari, che possono essere rilevati solo in ampi studi di fase 4 condotti dopo l’immissione in commercio di un vaccino.

Si dovrebbero quindi continuare a monitorare attentamente i risultati e una migliore farmacovigilanza dovrebbe far parte dello sviluppo di qualsiasi vaccino. I tempi di esecuzione degli studi dipendono dalla velocità e dall’accuratezza con cui li si porta avanti, ovviamente. Nel caso dei vaccini anti-Covid, tutti gli esperti sostengono che i tempi sono stati straordinariamente accorciati rispetto alle normali fasi di studio di un vaccino, che normalmente richiedono da 5 a 10 anni. La pubblicazione su una rivista scientifica di un lavoro di ricerca sottoposto a revisione tra pari (peer review) non sarebbe strettamente necessaria per l’autorizzazione, ma è ovviamente fondamentale in casi come quello di cui stiamo parlando, per la sua rilevanza su tutta la popolazione mondiale e per permettere un confronto aperto e trasparente dei vari prodotti in competizione. Una tale procedura aperta e trasparente non sembra sia stata tenuta in considerazione per i vaccini in arrivo.

Un segnale di attenzione opportunamente critica alla tecnologia con cui sono sviluppati i vaccini è venuto nei giorni scorsi dal governo australiano, che, ancora prima della decisione degli Stati Uniti, aveva deciso di non acquistare il vaccino Johnson&Johnson in quanto basato, come AstraZeneca, su una tecnologia a vettore virale. Più esattamente, precisiamo noi, il vaccino Johnson&Johnson (Ad26) è coltivato in linea cellulare PER.C6 da feti umani abortiti, realizzati con Adenovirus non replicanti, che portano una sequenza RNA della proteina spike del virus del Covid-19.

Sempre dall’Australia viene un importante monito (subito ripreso in Gran Bretagna) da parte di un ricercatore, il professor Ian Mackay dell’Università del Queensland. Il modello da lui elaborato dimostra che il solo vaccino non può essere la soluzione del problema dell’epidemia. Esistono molti altri fattori di cui tenere conto. Il “messianismo vaccinale” va decisamente ridimensionato.