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EUTANASIA E DINTORNI

Stefano, Brittany e lo Stato che si fa giustiziere

In cosa differiscono le camere della "dolce morte", dell'eutanasia per legge dalle “quattro mura dello Stato” dove Stefano è morto? Cucchi e Brittany Maynard hanno questo in comune: su entrambi lo Stato ha esercitato il suo distorto potere di vita e di morte. Al primo, negandogli le cure, alla giovane offrendole la pillola per suicidarsi. 

Editoriali 06_11_2014
Stefano Cucchi

C’è qualcosa che lega Stefano Cucchi, il giovane ragioniere e spacciatore morto in carcere e Brittany Maynard, la donna che si è tolta la vita ingoiando una dose letale di barbiturici, dopo averlo per tempo annunciato on line. Una liason, ancora non scandagliata, che riguarda la nostra organizzazione sociale e politica, nella sua più alta espressione, cioè o Stato. Tutto il resto è già stato detto. Su Stefano Cucchi, la “pornografia della morte” e l’uso cinico delle immagini, lo scandalo di una sentenza che ha liberato tutti, basata sulla differenza, semplice ma impossibile da accettare, tra la verità giudiziaria basata sulle prove e l'evidenza dei fatti dei fatti. E i fatti raccontano una verità diversa, quella di una catena di errori e colpevoli mancanze. Uno scempio ingiusto che non può rimanere impunito. 

Anche su Brittany resta poco da dire: a differenza di Stefano lei la morte l’ha scelta , rivendicando il diritto di decidere il come e il quando per «morire con dignità», estremo atto di libertà sottratta all'imperdonabile casualità di un tumore al cervello. Un suicidio, per alcuni, che ha le sue ragioni nel diritto alla morte come l’altra faccia del diritto alla vita. Se la vita è un dono di Dio, perché non accettare la possibilità di restituire gentilmente il dono? Oppure, per altri, insensato atto di ribellione contro il male e il limite che guasta fin dalla nascita ogni esistenza e avventura umana. 

Stefano Cucchi, dice la madre, non è morto sulla panchina di qualche parco romano, ma “tra le quattro mura dello Stato”. Anche Brittany Maynard, in qualche modo, è morta con la complicità dello Stato, quello dell’Oregon che ha tra sue leggi anche l’eutanasia, il diritto alla “dolce morte” quando la malattia è incurabile o quando a restare senza cure e medicine è il mal di vivere. La differenza sta nella libertà di scelta: Cucchi non ha firmato nessuna liberatoria alla propria distruzione fisica per mano di medici ignavi o carcerieri violenti. E non vale opporre il fatto che Cucchi giustificò davanti al giudice le sue tumefazioni con un’improbabile caduta dalla scale, o proseguì con ostinazione nello sciopero della fame e della sete, nonostante fosse già al limite della sopravvivenza. Quando smise di respirare, il giovane era sotto la tutela dello Stato, era stato consegnato prima ai carabinieri, poi alle guardie del carcere, infine ai medici che non hanno notato niente di anormale. Assurdo: era loro dovere curarlo, anche contro il suo stesso volere. E ogni morto nelle mani dello Stato giustiziere è una sconfitta per tutti, per la società, per la democrazia e le sue istituzioni. Su questo non si possono avere dubbi. 

«Il diritto alla vita non conosce eccezioni», ha scritto Giuliano Ferrara, «anche per le vite difficili, per i corpi e i sistemi nervosi difficili da controllare e custodire in un commissariato o in un ospedale o in un’azione di sicurezza per la strada, perfino per i criminali peggiori». Per questo, l’ostinata è tenace battaglia di Ilaria Cucchi, la sorella, e dei genitori di Stefano, sono pienamente legittimi, anche se il rischio della strumentalizzazione politica e mediatica pare a volte essere incoraggiata dai loro comportamenti. Ma non è questo il punto. Lo scandalo è che a indignarsi contro questo Stato colpevole e indecente, siano giornali, partiti e associazioni che poi reclamano dallo stesso Stato l’autorizzazione a uccidere e sopprimere altre vite. Senza violenza, certo: basta solo un bicchier d'acqua per ingoiare serenamente la pillola dell'estrema compassione. 

In cosa differiscono le camere della dolce morte dalle “quattro mura dello Stato” dove Stefano è ha smesso di respirare? Certo, le cliniche dove Eluana Englaro o Giorgio Welby sono stati “suicidati” con il favore della legge non hanno niente da spartire con le luride celle quattro metri per quattro dove lo Stato rinchiude i detenuti: lì tutto è pulito, silenzioso e a prova di germi. Soprattutto, senza urla, schiamazzo dei parenti e clamore dei media. Che se ne stanno buoni e indifferenti, dopo aver combattuto la buona e progressista battaglia della "dolce morte" sostenuto la legalità del massacro degli innocenti, del diritto alla selezione eugenetica, ai bimbi comprati e agli uteri affittati. 

 Si può allora chiedere allo Stato di recitare questa schizofrenica commedia? Si può andare in piazza a chiedere verità e giustizia e poi regolare per legge l'addio alla vita? No, che non si può. O, almeno, non si dovrebbe. Ma tant’è, il pensiero unico della “bella e dolce morte” ha i suoi poeti e scribi: piangono sul giovane ucciso dalla polizia e poi indossano, senza imbarazzo, il cappuccio del boia. Come Massimo Gramellini, premiére griffe del quotidiano La Stampa, che se la prende con il Vaticano perché ha osato criticare la sceltam di Brittany. Così scrive  il Massimo poeta: «nessun condannato a morte si avvia volentieri al patibolo, a meno che sia un martire invasato: categoria di cui da sempre abbondano soprattutto le religioni. Se sceglie di anticipare l’esecuzione, è solo perché vuole andarsene con consapevolezza. C’è molta più dignità nelle lacrime di congedo della vitalissima Brittany che in chi, ancora una volta, ha deciso di salire sull’onda di un caso mediatico per zavorrare di aggettivi infamanti la libera e drammatica scelta di un essere umano». Ecco dove può arrivare il livore anticattolico mischiato a un farlocco liberismo etico. 

Così il suicidio e l'auto distruzione si trasfigurano in coraggio e dignità contro l'arroganza di una Chiesa che si permette di ricordare quello che Gramellini e tutta la laicissima compagnia eutanasica (su Libero Filippo Facci si esibisce in un pezzo che è una pernacchia all’intelligenza) non tollerano sia ricordato. Per questo la trasformano in burla e caricatura, in modo che l’attacco sia più efficace. Mail club dei sani e perfetti, dei felici e contenti è solo una tragica illusione, un inganno che ha già desertificato la storia. Solo la malafede politica e la presunzione intellettuale può osare riproporlo, mascherando un delitto come l'espressione più nobile e compiuta della libertà. No: lo spot di Gramellini, è solo un irragionevole invito ad alzare bandiera bianca e a soffocare l’urlo della nostra umanità ferita. Occorre resistere a questi chirurghi gentili della "dolce morte" e considerare l’eutanasia di Brittany come la continuazione della stessa violenza su Cucchi con altri mezzi.