Siria, una pace "cinica" è possibile
Le mosse della Russia in Siria hanno rimesso in moto la diplomazia, a partire dalla visita di Netanyahu a Mosca. Allo stato attuale delle cose nessuno ha la forza di vincere. Sta alla diplomazia porre fine alla guerra, cinicamente, dividendo la Siria in sfere di influenza lungo i fronti attuali. Come si fece in Bosnia nel 1995.
Da alcuni giorni sono le mosse della Russia il tema al centro dell'attenzione nel conflitto in Siria. Vedendo vacillare Damasco e diffidando ormai di una difesa dell'alleato Bashar al Assad lasciata solo nelle mani di Hezbollah e degli iraniani, Vladimir Putin ha cominciato a rafforzare la presenza russa nella base navale di Tartus, schierando apertamente le sue forze nello scacchiere siriano. Ieri fonti americane hanno diffuso la notizia secondo cui sarebbero 28 i caccia russi pronti ad agire in Siria, mentre il ministero degli esteri di Mosca - denunciando l'esplosione di un razzo piovuto contro il compound della propria ambasciata a Damasco da una zona controllata dalle forze anti-governative - invocava «non solo parole ma azioni concrete» come risposta. Un'espressione che sembra lasciar supporre che - se l'episodio dovesse ripetersi - a pensarci saranno direttamente loro.
Non sono però solo i caccia e le armi a muoversi in queste ore: ieri c'è stato anche un incontro politico importante. A Mosca è volato il premier israeliano Netanyahu, per un faccia a faccia con Putin. Basta da solo questo incontro a descrivere quanto il pantano siriano in quattro anni sia diventato intricato. I rapporti tra Mosca e Gerusalemme, infatti, non sono mai stati così buoni: da tempo Putin sta perseguendo una politica di nuovo protagonismo in Medio Oriente e Israele, Paese in cui negli anni Novanta sono immigrati un milione di russi, è un alleato naturale. Solo che oggi c'è un piccolo problema: in Siria i due Paesi si trovano su fronti opposti. Perché - in nome dell'ossessione iraniana - fino ad oggi Netanyahu si è preoccupato solo delle milizie filo-iraniane di Hezbollah, suo nemico storico; che però è anche il supporto militare che finora ha tenuto in piedi Assad, soprattutto in quest'ultimo periodo in cui l'esercito siriano appare sempre più debole. Israele in questi anni non ha perso occasione per bombardare Hezbollah in Siria, soprattutto ogni volta che intercettava un convoglio di armi da portare «al sicuro» in Libano. In questo modo - secondo il principio per cui il nemico del mio nemico è mio amico - ha favorito oggettivamente le milizie anti-Assad, al punto che oggi al di là delle alture del Golan (controllate da Israele dal 1967) sventolano le bandiere qaediste di Jabat al Nusra. Con l'arrivo dei caccia russi sui cieli della regione - però – le cose adesso si complicano. E allora ecco Netanyahu precipitarsi a Mosca per concordare con Putin un modus vivendi onde evitare spiacevoli inconvenienti aerei. E nonostante tutti gli attriti con Obama sulla questione dell'accordo sul nucleare iraniano, il premier israeliano si è affrettato comunque a dichiarare che i contenuti di questi colloqui con la Russia sono stati concordati con Washington.
Che cosa ne esce da tutto questo quadro? Che la mossa di Putin - piaccia oppure no - ha rimesso in movimento la diplomazia intorno alla Siria. Mosca ha fatto un passo per mettere in chiaro che non lascerà cadere Damasco, indipendentemente dal fatto che ad attaccarla sia l'Isis, Jabat al Nusra o qualsiasi altra sigla «moderata» (ammesso che ne esistano ancora). Nello stesso tempo, però, non si tratta di un elemento in grado di ribaltare le sorti del conflitto, perché al Nord gli equilibri sul terreno pendono decisamente a favore della galassia dei ribelli e non possono certo i raid russi capovolgerla. La verità è che siamo in una situazione di stallo in cui nessuna delle due parti è in grado di prevalere riunificando sotto il suo potere la Siria.
E allora è qui che oggi ci sarebbero le premesse perché la diplomazia torni a dire la sua. A una condizione: mettere da parte i sogni, le speranze e le ideologie e rassegnarsi a una pace brutta, sporca e anche un po' cattiva. Sì, se la priorità oggi è fermare la carneficina bisogna ragionare su una pace raggiunta più per sfinimento che per gloriosi traguardi. Una pace con l'obiettivo minimale di fermare le armi e imporre a chi le ha create di far pulizia delle schegge impazzite come l'Isis. Senza incartarsi su transizioni oggi del tutto inimmaginabili (compresa la solita domanda Assad sì o Assad no), ma semplicemente cristallizzando le linee raggiunte dal fronte.
Tutta questo avrebbe evidentemente un prezzo orribile: una Siria divisa. E sarebbe raggiungibile solo attraverso un accordo che coinvolga chi tira i fili delle milizie: non solo Stati Uniti e Russia, ma anche Iran, Arabia Saudita, Qatar, Turchia... Un tavolo per dividersi le sfere di influenza nel Medio Oriente a pezzi, senza grandi entusiasmi e anche un po' di cinismo.
Una pace cattiva. Non sarebbe poi così una novità. Che cosa fu - ad esempio - quella che gli accordi di Dayton vent'anni portarono in dote ai Balcani? La criticammo tutti, ne elencammo le ingiustizie, il fatto che i carnefici (allora) restavano al loro posto, ne indicammo con precisione le contraddizioni che restano tuttora aperte. Eppure lì da vent'anni non si combatte più. E si può almeno sperare che vada avanti ancora.