GEOPOLITICA
Siria, lo spettro di un secondo Iraq
Guerra civile fra le diverse fazioni del Paese e mire egemoniche delle altre potenze regionali stanno spingendo la Siria verso il baratro.
Attualità
27_12_2011
«Il Principe della pace faccia cessare le violenze in Siria, dove tanto sangue è già stato versato». Nello sguardo sul mondo di Benedetto XVI nel messaggio «urbi et orbi» nel giorno di Natale non poteva emergere in maniera più chiara la preoccupazione per le notizie che continuano ad arrivare da Damasco. Del resto quanto accaduto in questi ultimi giorni ha segnato - se possibile - un ulteriore salto di qualità nella deriva del Paese.
Se c'era bisogno di una conferma del pericolo che la Siria si trasformi in un nuovo Iraq giovedì è arrivata puntuale con gli attentati suicidi a Damasco. Più di quaranta morti e quasi 200 feriti per le due autobombe che nella capitale hanno colpito il quartier generale dei servizi di sicurezza. Con il regime di Bashar al Assad ad accusare al Qaida per la strage, per dimostrare così che tutta l'ondata di proteste in corso da oltre nove mesi non sarebbe altro che una «macchinazione guidata da forze esterne». E - dall'altra parte - le voci dell'opposizione ad accusare il governo di Damasco di avere orchestrato queste «stragi di Stato» per sviare l'attenzione degli osservatori della Lega araba. Sì, perché lunedì in Siria sono anche arrivati i primi 50 inviati di un gruppo di 150 osservatori: dovrebbero vigilare sul ritiro dell'esercito dalle città dove più dura è stata finora la repressione dei moti popolari. Ma è davvero difficile credere sul serio che questo manipolo di diplomatici di un organismo debole (e per di più formato da Paesi che perseguono obiettivi propri nella partita che si sta giocando a Damasco) possano avere poteri taumaturgici.
Il punto è che a essere sbagliato è proprio il paradigma attraverso cui viene raccontata la crisi siriana. Perché lo scenario di oggi non è riducibile solo allo schema di un regime autoritario abbarbicato al proprio potere e sostenuto da un esercito che non esita a sparare sull'opposizione. Il problema vero è ormai stabilire chi sta combattendo contro chi nella battaglia in Siria. Esattamente come accaduto in Iraq, infatti, l'implosione di un regime sta dando la stura a mire egemoniche di potenze regionali (leggasi Arabia Saudita e Turchia, che cercano indirettamente di regolari i conti con l'Iran) e all'emergere di gruppi locali che perseguono propri obiettivi (i sunniti che vogliono liquidare gli alawiti, finora al potere).
Si parla tanto, ad esempio, di un «esercito dei disertori»; raccontato così è un'immagine «rassicurante» di una resistenza organizzata. Ma tante testimonianze che filtrano dalla Siria parlano piuttosto di gruppi di milizie eterogenee, con comandanti che agiscono con obiettivi propri, ampiamente equipaggiati da armi e rinforzi in arrivo dall'estero (guarda caso soprattutto dalla frontiera irachena). Il tutto in un Paese che - anche per via delle sanzioni internazionali - dal punto di vista economico si avvia verso il baratro: il prodotto interno lordo si è contratto del 30 per cento; per un dollaro oggi ci vogliono 62 sterline siriane contro le 47 di inizio anno; in molte città la stessa rete elettrica ormai funziona a singhiozzo. Senza dimenticare il rischio che i sussulti di Damasco trascinino con sé anche il vicino Libano, da anni ormai in equilibrio su un crinale sempre fragilissimo.
Sono tutte queste ragioni a far dire che lo spettro di un secondo Iraq si sta già materializzando in Siria ogni giorno di più. Tra l'altro proprio mentre anche a Baghdad, con il ritiro delle ultime truppe americane, la situazione è tornata incandescente. Con il pericolo che si venga a creare un'immensa area destabilizzata, che andrebbe dal Golfo Persico fino al Mediterraneo. Ed è proprio in questo contesto drammatico che i cristiani di Damasco stanno celebrando in queste ore il loro Natale. Un Natale che già oggi assomiglia molto a quello di Baghdad: le cronache raccontano che per la prima volta sono spariti tutti i segni esteriori della festa. Certamente è stato accolto l'invito alla sobrietà lanciato dai tre patriarchi di quella che fu la Chiesa di Antiochia (greco-ortodosso, melchita e siro-ortodosso), in segno di dolore per le tante vittime di questi mesi. Ma non è difficile leggere in questo tono dimesso anche la paura dei cristiani della Siria per i loro futuro. Perché slogan come «gli alawiti alla tomba, i cristiani in Libano» non sono certo passati inosservati nelle manifestazioni anti Assad.
La Siria oggi avrebbe bisogno di un dialogo di riconciliazione nazionale vero, capace di guardare al futuro del Paese, ma anche di mettere in sicurezza i diritti delle minoranze. Non c'è, però, solo l'ostinazione di Assad a impedirla; anche i vicini interessati che soffiano sul fuoco hanno ben altri obiettivi. E così il Paese precipita nel caos, rischiando di trascinare nello scenario iracheno un altro pezzo importante del Medio Oriente. In una situazione del genere non basteranno certo 150 osservatori della Lega Araba a far invertire una rotta così gravida di preoccupazioni per tutti.