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MEDIO ORIENTE

Siria, l'esperimento delle "aree di de-escalation"

Appena un mese fa, con l'escalation delle armi chimiche, pareva finita ogni speranza di pace. Ora invece, ad Astana, si giunge a un nuovo accordo sulla Siria. Si dovrebbero creare 4 aree in cui si rispetta un cessate il fuoco. Le potenze garanti (Russia e Iran per i governativi e Turchia per i ribelli) dislocheranno truppe sul terreno. Sarà difficile rispettare i patti, ma stavolta anche l'amministrazione Trump è coinvolta.

Esteri 07_05_2017
Erdogan e Putin

Appena un mese fa - con l'escalation intorno alle armi chimiche nella regione di Idlib e la reazione missilistica americana - la speranza di una soluzione politica per la guerra in Siria sembrava già morta e sepolta. E del tutto inutile era apparso il tavolo di Astana, l'asse messo in piedi da Russia, Iran e Turchia per arrivare a un cessate il fuoco. Ora, invece, proprio dalla capitale del Kazakhstan si è materializzato un nuovo spiraglio esplorato da tutti con tante domande oggi in Siria. 

Dalla mezzanotte di ieri, infatti, è entrato in vigore l'accordo che prevede l'istituzione delle de-escalation zones, quattro aree nelle quali i tre Paesi protagonisti dell'iniziativa (fortemente impegnati nel sostegno alle fazioni in lotta ormai da più di sei anni in Siria) vorrebbero implementare un cessate il fuoco di almeno sei mesi, in forza del quale poi negoziare un accordo politico che ponga fine alla guerra. Non esistono ancora confini precisi (l'intesa dice che verranno stabiliti entro il 4 giugno), ma le aree in questione sono comunque chiare: sono quelle dove - dopo la riconquista di Aleppo - i combattimenti tra le forze lealiste e le milizie che non fanno parte dell'Isis sono proseguiti più intensi. Quindi: innanzi tutto la regione di Idlib, nel nord-ovest della Siria, che è oggi la più importante roccaforte rimasta nelle mani dei ribelli; poi - nel centro del Paese - l'area tra Homs e Hama; infine, a sud, il quartiere della Ghouta a est di Damasco e la fascia delle provincie di Daraa e Quneitra, a ridosso del confine con Israele.

Nell'accordo di Astana de-escalation significa una cessazione delle ostilità, compresi i raid aerei (che andrebbero invece avanti nelle aree come Deir Ezzor e Raqqa, tuttora controllate dall'Isis); insieme a questo verrebbe garantito l'accesso degli aiuti umanitari in aree in cui vivono complessivamente 2,7 milioni di persone. Ovviamente la ratio dell'accordo è che ciascuno dei firmatari si impegnerebbe a fermare le azioni dei propri alleati: la Russia e l'Iran l'esercito di Assad e le milizie sciite, la Turchia la galassia delle formazioni ribelli. Fin qui non ci sarebbe nulla di nuovo rispetto ai precedenti tentativi di cessate il fuoco, tutti andati in frantumi nel giro di qualche settimana. Però stavolta c'è un'aggiunta importante: per la prima volta l'accordo parla espressamente di truppe dei tre «Paesi garanti» da dislocare sul terreno in apposite fasce di sicurezza, per farlo rispettare. Ed evoca anche la possibilità di «parti terze» (gli Stati Uniti? forze di altri Paesi con un mandato Onu?) che potrebbero essere coinvolte nell'operazione. È soprattutto questo punto a far pensare alla possibilità di un impegno più concreto affinché le de-escalation zones tengano; ma, insieme, è l'aspetto che fa anche temere che il dispiegamento militare possa diventare il primo passo verso la tanto temuta spartizione della Siria.

Va detto subito che così com'è l'accordo non può funzionare: la posizione della Turchia, infatti, oggi non è rappresentativa di tutte le milizie ribelli; Ankara ha ormai un suo interesse prevalente - la questione curda - e per questo vorrebbe trovare al più presto una via d'uscita dignitosa dallo scontro con Assad. Ma è un atteggiamento che non coincide con quello dell'High Negotiations Committee, il cartello di gruppi dell'opposizione siriana sponsorizzato dall'Arabia Saudita. Cartello che - non a caso - ha già detto di non accettare i termini dell'accordo di Astana. 

Dunque è tutto inutile già in partenza? No. Perché la novità significativa è che l'amministrazione Trump, pur non essendo tra i firmatari dell'intesa, stavolta è stata coinvolta nella discussione. E - nonostante le perplessità messe nero su bianco in un comunicato del Dipartimento di Stato (prima fra tutte il riconoscimento alle truppe iraniane di un ruolo da «garante» in Siria) - gli Stati Uniti sembrano considerare comunque quest'accordo un punto di partenza per un negoziato al tavolo ufficiale, quello che entro la fine del mese (cioè prima del 4 giugno) dovrebbe riprendere sotto l'egida dell'Onu a Ginevra. 

Anche per questo, già la settimana prossima, dovrebbero incontrarsi il segretario di Stato Tillerson e il ministro degli Esteri russo Lavrov. E se dal faccia a faccia davvero dovesse emergere la possibilità di un'intesa tra Stati Uniti e Russia per uscire dal pantano siriano, non ci vuole molto a immaginare che diventerebbe il tema in cima all'agenda di Donald Trump in Arabia Saudita, prima tappa - il 21 maggio - del suo primo viaggio internazionale dall'elezione alla presidenza.

La domanda, allora, diventa: è davvero possibile oggi quest'intesa tra Stati Uniti e Russia sulla Siria? L'iniziativa di Astana testimonia che Putin la sta cercando; Mosca si è ritrovata spiazzata dall'escalation di qualche settimana fa e aspira a riprendere in mano le redini a Damasco. Sa che, per le sue ambizioni in Medio Oriente, l'accordo politico ampio sarebbe molto più funzionale rispetto a una soluzione solo militare; ma ha anche visto come la nuova amministrazione americana non sia disposta a fare sconti né ad Assad né (soprattutto) ai suoi alleati iraniani. A Riyad, infatti, Trump andrà a rilanciare l'idea della cosiddetta «Nato del Medio Oriente», l'alleanza militare tra Paesi sunniti che - sotto le insegne della «lotta all'estremismo» - di fatto è un'alleanza contro Teheran (come si vede già benissimo nella sanguinosa e dimenticata guerra in corso nello Yemen). 

Dunque si giocano molto sull'asse Mosca-Teheran e sui passi indietro che Putin è in grado di ottenere dagli ayatollah le possibilità di successo dell'iniziativa di Astana. Senza dimenticare che in Medio Oriente - nei prossimi giorni giorni - c'è anche un altro appuntamento fondamentale: il 19 maggio proprio gli iraniani vanno alle urne per l'elezione del presidente, con il pragmatico Rouhani che non è affatto certo della riconferma. Un'altra tessera, dunque, di un puzzle che resta quanto mai complesso.