Siria, i jihadisti che noi armiamo
In Siria un numero crescente di miliziani che arriva da tutto il mondo per la "guerra santa". Finalmente se ne sono accorti gli Usa, che vogliono calmare l'attivismo militare francese e britannico a sostegno dei ribelli. Ma l'afflusso degli islamisti internazionali ora fa tremare Turchia e Giordania.
Sabato 6 aprile h: 8:47: Alle 3:26 di questa notte, Ansa batte la notizia. Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe, Andrea Vignali e Susan Dabbous sono stati rapiti nel nord della Siria tra la regione di Idlib e quella turca di Hatay. Le loro tracce si sono perse il 4 aprile, nel pomeriggio. E ieri mattina fonti giornalistiche siriane e straniere hanno riferito che i giornalisti si trovavano nel villaggio di Yaqubiya, a nord di Idlib, in stato di fermo, probabilmente da parte dei miliziani fondamentalisti (Redaz.).
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Forse, ma diciamo sommessamente forse, il buonsenso comincia a farsi strada nelle cancellerie occidentali impegnate da due anni a questa parte a rendere più sanguinosa e foriera di disastri la guerra civile siriana. Giunge notizia che al G8 di Londra del 10-11 aprile prossimo il segretario di Stato americano John Kerry parteciperà ad un incontro riservato a tre, da lui voluto, coi ministri degli Esteri di Francia e Regno Unito.
Oggetto del minivertice parrebbe essere la definizione di una comune linea di condotta nei riguardi di Jasbat al Nusra e delle altre formazioni jihadiste e salafite radicali divenute col tempo la componente militare più rilevante della galassia della ribellione antiregime in Siria. Da tempo Regno Unito e Francia scalpitano per rifornire di armi la ribellione anti-Assad, e più volte hanno tentato di mettere in discussione l'embargo sulla vendita di armi a tutte le forze che si combattono sul suolo siriano decretato dall'Unione Europea (Ue) nel maggio 2011. Gli Stati Uniti, che per molte ragioni da quando è presidente Barack Obama cercano di coinvolgersi il meno possibile in modo diretto negli affari mediorientali, hanno finora molto incoraggiato le aspirazioni di Parigi e di Londra a giocare il ruolo di potenze regionali di riferimento nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente. Tuttavia in assenza di un mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (dove il veto di Russia e Cina impedisce la deliberazione di risoluzioni favorevoli alla ribellione) e di una rimozione dell'embargo sulle armi deciso dalla Ue gli Usa esitano a dare semaforo verde ai più bellicosi fra gli europei.
L'esito del vertice di Roma del 28 febbraio scorso degli “Amici della Siria” (gli 11 paesi più decisamente schierati dalla parte dei ribelli) è stato l'epitome di questa situazione: i convenuti hanno deliberato la fornitura di “materiale bellico non letale” (blindati, visori notturni, giubbotti antiproiettile) al Libero esercito siriano, scontentando così sia la Coalizione nazionale siriana nominalmente capeggiata da Moaz al Khatib, sia Francia e Regno Unito che volevano fare di più. Nel giro di un mese, però, il vento sembra essere un po' cambiato: la preoccupazione che ha spinto John Kerry a convocare il summit a tre in margine al prossimo G8 è stata esposta apertamente dal ministro degli Esteri francesi Laurent Fabius mercoledì 3 aprile: «Non forniremo delle armi se queste dovranno poi finire agli estremisti dell'opposizione. Bisogna fare un lavoro preciso per capire chi abbiamo di fronte».
È noto da tempo che i combattenti jihadisti, in gran numero stranieri, sono militarmente decisivi per le sorti della ribellione armata sul terreno. In ogni grande offensiva ribelle combattono in coordinamento con il Libero esercito siriano, e le loro azioni sono fra le più efficaci, essendo in grado coi loro combattenti suicidi di colpire duramente le posizioni governative che gli altri combattenti ribelli esiterebbero ad attaccare e con molta difficoltà potrebbero espugnare. Il loro numero aumenta di settimana in settimana non solo per l'afflusso di volontari da tutto il mondo (provenienti da quasi tutti i paesi arabi e anche da Pakistan, Afghanistan e Cecenia, come pure dagli ambienti dei musulmani naturalizzati francesi e britannici), ma anche perché i finanziamenti di Arabia Saudita e Qatar non sono limitati alle forniture di armamenti, bensì si estendono alla retribuzione dei combattenti, quelli del Libero esercito siriano ma spesso anche quelli jihadisti.
Sempre più numerosi sono i siriani che, con l'economia completamente bloccata, si guadagnano da vivere imbracciando il fucile per conto della ribellione; e i ribelli in grado di pagare meglio sono quelli di Jasbat al Nusra e di altri gruppi jihadisti. Il regime di Bashar el Assad è in qualche modo vittima della legge del contrappasso, considerato che per anni ha favorito l'afflusso di combattenti di Al Qaeda e di altri gruppi estremisti in Iraq attraverso il territorio siriano, quando si trattava di colpire le truppe americane che occupavano il paese confinante.
Predestinato a soffrire gli stessi guai dell'apprendista stregone Assad potrebbe essere in futuro Erdogan, primo ministro di quella Turchia che lascia passare attraverso il suo confine meridionale con la Siria tutti i combattenti barbuti che atterrano negli aeroporti anatolici senza bisogno di visto sul passaporto. Il pericolo è chiaro ai commentatori turchi: sul principale quotidiano, Hurriyet, si è letto poco tempo fa che uno dei problemi più gravi è che «Un numero crescente di candidati al jihad, non solo in Turchia ma in tutto il mondo, vuole arruolarsi e andare a combattere. Non vanno in Siria per costruire la democrazia». Un problema simile riguarda la Giordania, dove americani e agenti locali hanno addestrato militarmente 3 mila oppositori che dovrebbero poi garantire un'area cuscinetto sotto controllo ribelle al confine col territorio giordano.
Considerati i risultati poco confortanti dell'addestramento americano di truppe di paesi musulmani, si può temere il peggio: in Afghanistan i casi di soldati dell'esercito afghano che sparano sui loro istruttori americani sono la regola, mentre in Mali la rivolta che ha portato alla secessione dell'Azawad e poi all'intervento di riparazione francese è stata guidata da numerosi tuareg che si erano formati sotto addestramento americano nelle file dell'esercito maliano.
Ma quello dei jihadisti e degli estremisti islamici in genere che combattono in Siria non è l'unico problema sul quale le cancellerie occidentali sembrano non avere riflettuto a sufficienza. Basterebbe chiedersi perché Arabia Saudita e Qatar, due autocrazie in piena regola, si diano tanto da fare perché in Siria trionfi la democrazia nella forma di un governo prodotto di libere elezioni successive alla cacciata di Assad. La risposta sta nella composizione etno-religiosa della Siria: gli arabi musulmani sunniti sono poco più del 60 per cento del totale della popolazione, ma la famiglia Assad, la totalità dei capi dei servizi di sicurezza e molti alti gradi dell'esercito sono alawiti, una corrente dell'islam sciita. Arabia Saudita e Qatar sono sunniti, così come la Giordania e la Turchia simpatizzanti coi ribelli. L'Iran, grande aleato del presidente Assad insieme alla Russia, è sciita, e sciiti sono gli hezbollah che forniscono uomini e armi.