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IL FILM DEL MOMENTO

Silence, inutile e impregnato di politically correct

I contadini kirishitan del film di Scorsese dimostrano di avere capito tutto, mentre il gesuita no. Preferisce una vita un po’ più lunga, tarlata dal rimorso, segnata a dito e condita dal dissimulato disprezzo che i persecutori hanno per l’apostata. Proprio un film inutile, impregnato di clerically correct. 

Libertà religiosa 26_01_2017

Come avevo previsto, il film di Scorsese, Silence, parla del silenzio di Dio. Uno potrebbe dire che c’era arrivato molto prima Ingmar Bergman, coi suoi cupi lavori. Tuttavia, Bergman era, per così dire, giustificato dal suo ambiente strettamente luterano, mentre Scorsese è cattolico. E’ chiaro, a questo punto, che il cattolicesimo di Scorsese è una religiosità tormentata e dubbiosa, dato confermato dalla sua precedente opera L’ultima tentazione di Cristo, che a mio avviso fu ingiustamente demonizzata dal clerically correct del 1988.

Oggi il clerically correct è diametralmente opposto, così il regista italoamericano ha potuto presentare il suo film in anteprima in Vaticano, cosa impensabile col film del 1988. L’attore protagonista, Andrew Garfield, è stato costretto dal regista a seguire gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio per mesi, onde meglio calarsi nella parte. Dopo avere visto il film si scopre che, in realtà, doveva calarsi nella testa di Scorsese, visto che la vicenda non ha niente di “gesuitico” ed è per giunta anacronistica. Insomma, se l’avete visto, avete assistito ai rovelli di un intellettuale cattolico di oggi immersi, chissà perché, nel Giappone del XVII secolo.

Questa cosa poteva essere ambientata ovunque e in qualunque epoca di persecuzioni. Tanto per dirne una, anche i magistrati romani chiedevano ai cristiani arrestati una semplice «formalità»: abiura e granello d’incenso agli idoli. Il protagonista del film, il giovane padre Rodrigues, accetta di eseguire la cerimonia del fumi-e (calpestare una immagine sacra) per salvare la vita ai contadini kirishitan (cristiani) che, a differenza di lui, rifiutano di farlo. Un lapso, come sempre ce ne sono stati (se Scorsese, anziché leggere il romanzo di Shusaku Endo, Silenzio, si fosse documentato sui libri di storia, avrebbe ambientato più utilmente la sua storia al tempo dei donatisti africani).

Ma il vero protagonista della vicenda non è lui, bensì Dio, che sta sempre zitto e non si cura delle invocazioni a Lui rivolte, non salva i suoi dalla persecuzione, non Gli importa della vita dei credenti che Lo supplicano di salvarli. Alla fine, un film che lascia l’amaro in bocca e che, ma sì, si poteva fare a meno di vedere. Le persecuzioni sono espressamente previste nel Vangelo, libro che parla del primo «martire», Cristo. «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi», c’è scritto bello chiaro. Purtroppo non c’è scritto che, all’ora della persecuzione, basta invocare Dio per esserne scampati.

Il recentemente canonizzato José Sánchez del Río, martire messicano quattordicenne della Guerra Cristera, spiegò a sua madre che intendeva arruolarsi proprio perché si trattava di un’occasione ghiotta per guadagnare il Paradiso di corsa. E’ ovvio che chi non crede alla beatitudine della vita eterna - o ci crede troppo poco - si aggrappi alla vita terrena e cerchi di tenersela per quanto miserabile e disgraziata sia. I contadini kirishitan del film di Scorsese dimostrano di avere capito tutto, mentre il gesuita no. Preferisce una vita un po’ più lunga, tarlata dal rimorso, segnata a dito e condita dal dissimulato disprezzo che i persecutori hanno per l’apostata.

Proprio loro, educati dal bushido ad affrontare la morte per l’ideale. Ci si potrebbe utilmente chiedere che cosa era andato a fare, quel gesuita, in Giappone. Anzi, perché mai si era fatto proprio missionario gesuita. A meno che i gesuiti odierni non abbiano illanguidito anche gli Esercizi ignaziani. Boh. Il fatto è che i gesuiti del XVI secolo parlavano dei Novissimi, e soprattutto del Paradiso. E in toni tali che quegli sventurati contadini e pescatori non esitavano ad affrontare la morte pur di andarci. Ma tra i quasi trecentomila battezzati giapponesi non c’erano solo sfigati: molti samurai e daimy? (baroni) avevano abbracciato il cristianesimo perché vi avevano riconosciuto una dottrina superiore alle tre religioni tradizionali nipponiche: shintoismo, buddismo e confucianesimo.

Il recentemente beatificato daimy? Takayama Ukon si era convertito proprio dopo avere assistito a una disputa d’alto livello tra i bonzi e i gesuiti. La grande insorgenza di Shimabara nel 1637 aveva invocato la libertà religiosa: perché solo il cristianesimo doveva essere vietato? Ma tutto questo nel film non c’è; anzi, sembra quasi che il governo persecutore abbia le sue buone ragioni. In fin dei conti, un film inutile.