Sgreccia, il duro lavoro dell'uomo come mistero
Nei dibattiti pubblici coloro che avversavano la sua posizione cercavano abitualmente di condurre il discorso su aspetti “strappa-lacrime”. Elio Sgreccia non cadeva nella trappola dell’emotivismo, ma proponeva a tutti la fatica di ricercare e studiare per ragionare sul serio sulla grandezza dell'uomo e su come trascenda il mistero della sua libertà.
Non recuso laborem: non rifiuto la fatica del lavoro. Quando ho appreso la notizia della morte del cardinal Elio Sgreccia, subito, mi è balenata nella memoria questa frase attribuita a san Martino di Tours. Penso sia molto appropriata per sintetizzare la fruttuosa esistenza del cardinal Sgreccia, che ho avuto la fortuna di avere come professore presso il Policlinico Gemelli di Roma.
È stato un grande lavoratore in settori immensi e anche disparati. Prima come rettore di alcuni seminari marchigiani, poi come cappellano presso il Policlinico Gemelli di Roma, poi come primo professore ordinario di Bioetica presso la prima cattedra che in Italia veniva dedicata a questa nuova disciplina – siamo nel corso degli anni ’80 del secolo scorso –.
Nel campo della Bioetica è stato un autentico pioniere: ha insegnato, condotto ricerche, pubblicato e trasmesso la sua sapiente passione pensando sempre agli studenti del corso di laurea e dei corsi di specializzazione della facoltà di Medicina e Chirurgia. Ha contribuito in modo molto significativo a far emancipare il discorso bioetico dall’antica disciplina della Medicina legale e a far comprendere che la Bioetica è una disciplina a sé, con un suo preciso statuto epistemologico, affine a quello dell’etica speculativa. Nel corso degli anni ’60 e ’70 si era alla ricerca di principi che potessero orientare – prima – la ricerca sperimentale sull’uomo e – poi – le più ampie applicazioni della biologia e della medicina sull’uomo e sull’ecosistema. Le proposte furono molte, ma anche molto fumose e formali.
Elio Sgreccia ha proposto un principio sostanziale, inequivocabile e laico: «La persona umana rimane una grandezza che trascende, nel mistero della sua libertà e responsabilità, anche lo sforzo di autocomprensione e rimane il fine, e non il mezzo, dell’agire etico» (Manuale di Bioetica, vol. 1, p. 24). Questo è il principio che guida tutte le sue riflessioni e valutazioni in ambito bioetico: la centralità, l’eccellenza di ogni essere umano, di qualsiasi età, sesso e etnia. Questo è ciò che lui definiva «il personalismo ontologicamente fondato» «unico parametro valido e idoneo a dare uno statuto filosofico alla bioetica». Se non lo accettassimo, i nostri giudizi e le nostre valutazioni su fatti – pensa al recente caso di Noa Pothoven – e applicazioni tecnico-scientifiche presto o tardi si impantanerebbero nelle sabbie mobili dell’emozione dominante sul momento.
Nei dibattiti pubblici coloro che avversavano la sua posizione cercavano abitualmente di condurre il discorso su aspetti “strappa-lacrime” – proprio per indurre l’ascoltatore a un giudizio “di pancia” – e così citavano casi pietosissimi. Elio Sgreccia, invece, era abilissimo nel restare sui dati oggettivi forniti dalle scienze empiriche e nel valutarli alla luce della ragione filosofica. Non cadeva nella trappola dell’emotivismo, ma proponeva a tutti la fatica di ricercare, studiare, non accontentarsi del sentito dire, per ragionare sul serio.
Amava ripetere che il giudizio bioetico è come un triangolo: ha un lato nel dato scientifico, cioè nel fatto biologico e medico – cui prestava grandissima attenzione ed era sempre aggiornato –, ha un altro lato nel principio antropologico ricordato prima, e un ultimo lato nella dimensione giuridico-deontologica.
È un monumento il suo Manuale di Bioetica, continuamente riedito e aggiornato, ha formato migliaia di cultori di questa disciplina, tradotto in molte lingue. Il Manuale di Bioetica rivela la passione, la tenacia e la chiarezza che accompagnava la sua ricerca e che era in grado di trasmettere anche a voce nelle sue affollate lezioni.
Ha saputo circondarsi di validissimi collaboratori che ora continuano la missione intellettuale nel campo della bioetica. Così come ha collaborato a strettissimo contatto con Giovanni Paolo II, Carlo Caffarra e Joseph Ratzinger per la redazione di dossier e la stesura di molti documenti del magistero solenne, penso in particolare alla Lettera enciclica Evangelium Vitae.
La sua fede schietta e genuina e l’amabilità del suo carattere gli hanno consentito anche di proporre costantemente una visione profondamente armonica tra l’indagine razionale, la ricerca medico-scientifica e il dato della fede in Gesù Cristo e nella sua Chiesa.