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LE ACCUSE ALL'ITALIA

Se per fermare gli sbarchi bisogna scendere a patti

Il nostro governo è stato accusato di essere riuscito a fermare gli sbarchi pagando delle milizie responsabili del contrabbando di immigrati. In realtà si tratta di milizie che il governo libico di al-Sarraj ha integrato nelle sue forze di sicurezza benchè siano in effetti responsabili di traffici illeciti. E in Africa non è la prima volta che si scende a patti col diavolo. 

Politica 05_09_2017

Le iniziative per fermare gli immigrati diretti verso l’Italia per il momento funzionano abbastanza bene. Ad agosto ne sono arrivati “solo” 4.000 rispetto ai 21.294 dell’agosto 2016. Ma il nostro governo è stato accusato di riuscirci pagando delle milizie responsabili del contrabbando di immigrati. In realtà si tratta di milizie che il governo libico di al-Sarraj ha integrato nelle sue forze di sicurezza benchè siano in effetti responsabili di traffici illeciti. Se anche l’accusa rivolta all’Italia fosse fondata, tuttavia non sarebbe certo la prima volta che per raggiungere lo scopo qualcuno viene a patti con il diavolo. Lo sanno bene, e da molto tempo, le Nazioni Unite e le organizzazioni non governative che prestano aiuti umanitari in situazioni di crisi.

Le guerre civili in Africa finiscono solo quando si riesce a convincere i contendenti a formare un governo di unità nazionale. I gruppi antigovernativi allora depongono le armi, i loro leader diventano parlamentari e ministri e le loro milizie vengono integrate nell’esercito, anche se hanno infierito sui civili e hanno commesso violenze atroci. Il ribelli del Ruf, ad esempio, in Sierra Leone, hanno mutilato migliaia di persone. Sorteggiavano quale parte del corpo tagliare ai prigionieri. Hanno reclutato bambini soldato trasformandoli in criminali, impazziti per le droghe e per le violenze inflitte e subite. Per 12 anni, dal 1991 al 2002, hanno combattuto e hanno torturato, violentato e ucciso decine di migliaia di persone. Ma, con la pace, sono diventati un partito politico.

Una delle critiche rivolte alla Comunità di Sant’Egidio dai vescovi della Repubblica Centrafricana, a proposito della sua mediazione tra il governo e le milizie armate del paese che lo scorso giugno ha portato a un cessate il fuoco peraltro mai rispettato, è l’atteggiamento “troppo remissivo nei confronti dei gruppi ribelli che si sono macchiati di crimini indicibili”.

D’altra parte sembra non esserci altro modo per mettere fine ai massacri e alle crisi umanitarie devastanti. Dopo di che succede che degli ex combattenti divenuti militari regolari vengano persino scelti per far parte delle missioni di peacekeeping organizzate dalle Nazioni Unite e dall’Unione Africana.

I convogli di aiuti umanitari, a loro volta, scendono a patti con il diavolo quando, per raggiungere le popolazioni che stanno morendo di fame ed epidemie a causa di un conflitto, accettano di pagare i gruppi armati per poter attraversare i loro territori. Quando nel 1991 i clan somali hanno scatenato la guerra civile dopo la caduta del dittatore Siad Barre, la comunità internazionale si è mobilitata per soccorrere le popolazioni colpite da carestia. Ma i clan mettevano dei posti di blocco e i convogli se volevano proseguire dovevano pagare una sorta di dazio in generi alimentari, medicinali e denaro pari fino all’80% del valore degli aiuti trasportati. Quelli che provavano a forzare i blocchi perchè avevano ricevuto l’ordine di non pagare venivano attaccati. Qualche Ong ha minacciato di lasciare il paese vista la situazione. Quasi tutte hanno accettato il sistema pur di raggiungere le comunità a rischio. Adesso in Somalia è al Shabaab, il gruppo jihadista legato ad al Qaida, a farsi pagare quando c’è bisogno di intervenire nelle regioni che controlla. Durante la carestia del 2011, ad esempio, ha preteso una “tassa di registrazione” di circa 10.000 dollari per contentire alle Ong di operare. 

Sono risorse ingenti che vengono consegnate ai responsabili delle crisi umanitarie. “Grazie ai proventi delle trattative con le organizzazioni internazionali – sostiene la giornalista Linda Polman nel libro “L’industria della solidarietà” – i gruppi in lotta mangiano e si armano, oltre a pagare i loro seguaci” e questo influisce in maniera decisiva sull’intensità e sulla durata delle guerre”. In altre parole, certi conflitti potrebbero finire prima se chi li combatte non fosse involontariamente “finanziato” dalle Ong.

Vuol dire scendere a patti con il diavolo anche accettare che nei campi profughi vivano dei combattenti. È il fenomeno dei cosiddetti refugee warriors, i guerrieri profughi, che si mescolano e si nascondono tra i civili nei campi. Si tratta di una tattica abituale al punto che – scrive Linda Polman – “secondo alcune stime, tra il 15 e il 20 per cento degli abitanti dei campi profughi del mondo sono refugee warriors che tra un pasto e un trattamento medico portano avanti le loro guerre”.

Un caso estremo, per le conseguenze drammatiche di lungo periodo che ha prodotto, è quello dei campi allestiti nel 1994 nella Repubblica Democratica del Congo (allora Zaire), in Burundi e in Tanzania per accogliere oltre due milioni di persone fuggite dal Rwanda allo scoppio della guerra civile seguita al tentativo Hutu di sterminare l’etnia Tutsi. A lasciare il paese inseguiti dall’esercito Tutsi formatosi in Uganda ed entrato nel paese per mettere fine al genocidio erano gli Hutu, inclusi i militari e l’intera classe politica. I campi profughi dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite, specie quelli del Congo orientale, di fatto sono diventati, sotto gli occhi degli operatori umanitari, quartieri generali delle milizie Hutu che hanno continuato il massacro dei Tutsi in patria e di quelli residenti in Congo, tornando ogni sera nei campi.

Da allora nell’est del Congo non si è ancora smesso di combattere.