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EUTANASIA

Se gettare la madre dal balcone è un “atto d’amore”

Regno Unito: Robert Knight uccide la madre ammalata di Alzheimer buttandola dal balcone di una casa di cura. Ma il giudice gli sospende la pena sostenendo che «ha agito per amore e disperazione». È la stessa mentalità che, scambiando il male per bene, ha portato la Consulta a stabilire che in certi casi l’omicidio è ammissibile. Tutto il contrario di quel che faceva Madre Teresa, che prendeva su di sé il dolore dell’altro per renderglielo sopportabile e farlo sentire amato.

Vita e bioetica 29_09_2019

Proprio nei giorni in cui la Corte Costituzionale ordinava al Parlamento italiano di legiferare sull’eutanasia e il suicidio assistito ponendo dei paletti pro morte alla norma da approvare (e valicando così il suo compito di organo giudiziario), a Robert Knight, che lo scorso dicembre aveva ucciso la madre con l’Alzheimer buttandola dall’ultimo piano di una casa di cura, è stata sospesa la pena perché, secondo il giudice inglese Samantha Leigh, «sei una persona che ha agito per amore e disperazione». Due fatti che sgorgano da una medesima mentalità: si può ammettere l’omicidio in caso di sofferenze “insopportabili”.

Perciò, la Corte italiana aveva cominciato ad invadere il campo legislativo chiedendo che l’articolo 580 del codice penale sul divieto all’aiuto al suicidio fosse rivisto. Si parlava (anche in ambienti cattolici) di scrivere una legge che lasciasse al giudice la discrezionalità di prevedere delle attenuanti per i parenti che, presi dalla disperazione, avessero avallato l’omicidio. Ma dato che la discrezionalità del giudice nell’attenuare o meno una pena, a seconda delle circostanze, esiste già per ogni norma penale, una legge ad hoc non avrebbe fatto che ridurre a priori la responsabilità dei parenti omicidi in un clima già depravato, che vede di buon occhio l’omicidio dei malati, come dimostra il caso inglese. Un clima che ha poi permesso alla Consulta di stabilire che non sia punibile «ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio».

A dire che in una cultura della morte, come quella odierna, non solo non andavano concesse attenuanti, ma andava richiesto un rispetto rigoroso della pena per omicidio, sottolineando che si tratta di un atto gravissimo, è proprio la storia di Knight. Il giudice Leigh, infatti, non ha parlato solo di disperazione (perché non sarebbe bastato a giustificare la decisione) per sospendere la pena dell’uomo, ma di “atto d’amore”. Insomma, per attenuare giuridicamente l’omicidio e renderlo comprensibile, Leigh ha dovuto trasformare un atto malvagio in un atto di bontà. La violenza in carità. E così ha fatto la Corte Costituzionale, dichiarando che in certi casi l’omicidio è ammissibile.

Ad aggravare la colpa, il fatto che Knight avesse confessato la premeditazione del gesto, dichiarando che la madre, da lui portata sulla balaustra del tetto della casa di riposo in cui era ricoverata, lo guardava “terrorizzata” capendo cosa stesse per avvenire. Il che non è bastato a fermarlo. Il pm ha spiegato che l’uomo «ha detto alla polizia che sua madre era cosciente e lo guardava e soffriva» e che non si poteva parlare di pietà dato che Knight non aveva «perso momentaneamente il controllo».

La polizia ha infatti fatto notare alla Bbc che «questa azione rimane deplorevole e ha avuto conseguenze su molte, molte persone». Per questo, qualsiasi fosse la situazione o lo stato mentale del colpevole, non si può trasformare un atto malvagio in un bene. Altrimenti, come fatto notare dalla polizia, comincerà ad entrare nell’immaginario di chi è in difficoltà (parenti e pazienti) che l’omicidio/suicidio sia una strada buona (essendo legale).

Ciò non significa dimenticare le difficoltà dei parenti delle persone malate (anzi lo Stato dovrebbe elargire aiuti se fosse veramente interessato a loro) ma non permettere che un male compiuto per accanimento o anche per debolezza (un gesto di disperazione) venga chiamato bene. Il bene di quella donna uccisa così atrocemente non era infatti morire schiantandosi a terra e frantumandosi il cranio provando il dolore di un figlio che, anziché accudirla e portare con lei la sofferenza, ha deciso di ammazzarla. E non era nemmeno ingerire “più dignitosamente” una pillola per essere fatta fuori. Dire diversamente, chiamare questi “atti di misericordia” o semplicemente avallarli giuridicamente, significa essere arrivati a un livello profondo di convivenza con il male.

Basti pensare a Madre Teresa di Calcutta che ha incontrato milioni di sofferenti, anziani, moribondi, agonizzanti. Li prendeva su di sé, li lavava, li vestiva, gli forniva assistenza come fossero dei re. Parlando di una donna raccolta sul marciapiede ancora piena di vermi spiegò: «Ho fatto tutto ciò che il mio amore poteva fare per lei… ha pronunciato una sola parola: “Grazie”. Poi è morta. Ecco un esempio della grandezza dell’amore. Quella donna era affamata d’amore», ancora prima che di salute e benessere. L’amore, continuava Madre Teresa, è condividere il peso della sofferenza (non eliminare l’altro), «l’amore dovrebbe sgorgare dall’abnegazione e dobbiamo sentirlo fino al punto di stare male». Insomma, fino al punto di trasferirlo su di noi per renderlo sopportabile all’altro.

La famiglia, ricordava sempre la santa, dovrebbe essere il primo luogo dove questo “trasferimento” avviene. Dove si impara a portare i pesi gli uni degli altri, dove ci si sacrifica per la felicità altrui. E le leggi e lo Stato dovrebbero ribadirlo, invece che tollerare il male che alberga in essa. Come testimoniato il mese scorso da Hector Okamoto e da migliaia di famiglie italiane che amano i loro cari in condizioni drammatiche. Okamoto ha spiegato che nei 31 anni di coma del figlio lo ha accudito in casa notte e giorno, lasciando il suo lavoro perché «per un figlio si fa questo e altro». Questo è il bene, mentre uccidere è sempre, e senza alcuna eccezione, il male. Si può non esserne capaci, ma non si può per questo trasformare l’incapacità in un valore.