Sarajevo, una festa di colori per il Papa "italiano"
Cronaca del Viaggio Apostolico di Papa Francesco a Sarajevo, una città che lo accoglie a braccia aperte, mostrando le ferite della sua guerra recente. E' una festa di colori, dai costumi tradizionali alle bandiere bianco-gialle vaticane che sventolano ovunque. La messa allo stadio e l'incontro coi giovani, fra fiumi di gente di tutte le etnie.
Il 6 giugno Sarajevo si sveglia vuota e blindata. Le vie del centro sono deserte, chiuse al traffico, mezzi pubblici compresi, ed è vietato il parcheggio. Ogni angolo è presidiato da tre agenti di polizia. Si sente forte il rumore delle pale degli elicotteri che sorvolano la città. Si avverte la tensione per l'imminente arrivo del Santo Padre, ma manca il fermento che ci si aspetta alla vigilia di un evento così raro e importante. È all'imbocco della via che porta allo stadio Kosevo che lo scenario cambia completamente: un fiume di pellegrini cammina colorato e festoso. Sono il giallo e il bianco i colori predominanti, quelli della Santa Sede. Quasi tutti indossano i cappellini di cartone distribuiti dall'organizzazione, gadget indispensabile visto il sole cocente.
La gente ha cominciato a entrare alle sei del mattino, come imposto per ragioni di sicurezza. All'ingresso i giovani volontari distribuiscono acqua: fa già caldo e l'attesa è ancora lunga. Gli spalti sono gremiti, tutti sono già entusiasmati, si canta e si intona il coro che accompagnerà tutti gli appuntamenti di questa giornata: “Papa mi te volimo” (Papa ti vogliamo bene). Due settori sono riservati al clero, quello occupato dalle suore, prevalentemente vestite di nero, contrasta con quelli accanto coloratissimi perchè molti indossano i vestiti tradizionali di tutte le etnie bosniache. C'è anche un settore per i mutilati di guerra, ognuno dei quali ha vicino un accompagnatore che tiene aperto un ombrello per ripararlo dal sole.
All'ingresso del Papa esplode un boato di grida e di canti, la gente si ammassa sulle ringhiere lungo il percorso della papamobile che compie un solo giro nello stadio. Poi il Papa si cambia, indossa le vesti per la funzione e la festa si trasforma in un raccoglimento che si fa ancora più evidente durante l'omelia. Solo qualcuno, frustrato perchè non può comprendere quello che Bergoglio dice senza l'aiuto della traduzione, dice scherzando al vicino: “Il Papa è italiano”. L'omelia infonde commozione perchè ricorda la guerra, ma anche speranza perchè invita tutti a farsi “operatori”, e non solo “predicatori” di pace, quotidianamente e attivamente: perchè tutti sanno proclamarla, ma la pace bisogna farla. E la gente, almeno qui allo Stadio Kosevo, sembra viverlo oltre che averlo capito.
Alla fine della funzione 65mila persone, a seconda dei casi più abbronzate o addirittura bruciate, inondano finalmente quelle strade deserte al mattino. Riusciamo a scambiare qualche parola con qualcuno, nonostante la concitazione dovuta al fatto che gli appuntamenti della giornata si susseguono a un ritmo incessante e che le distanze da coprire sono consistenti. Tante le suore che chiedono indicazioni e che corrono verso la cattedrale per l'incontro con il clero, molte sono croate, ma tante altre sono bosniache e lavorano con i giovani nelle scuole: “Le parole del Papa ci danno il coraggio e la forza del nostro impegno quotidiano, il fatto che abbia deciso di venire qui, ci onora, ci fa sentire meno sole e ci spingerà a fare ancora meglio”. Sentiamo poi parlare italiano e non possiamo non chiedere: “Da dove venite?”, ci sentiamo rispondere: “Dalla Serbia, dove viviamo ormai da tanti anni e dove stiamo crescendo i nostri figli. Siamo qui con altre 40 persone. Cattolici e ortodossi insieme, condividiamo il nostro cammino di fede nonostante apparteniamo a due Chiese differenti. Troviamo bellissima l'esperienza dell'ecumenismo, ci arricchisce e ci dà gioia”. Anche il gruppo di 60 ucraini che incontriamo è di confessioni miste, cattolici, greco cattolici e ortodossi, sono venuti per chiedere al Papa di continuare a pregare per la Pace nel loro Paese, e proseguiranno per Medjugorje, tutti insieme.
Tanti giovani percorrono a piedi la lunga strada che porta al centro diocesano giovanile Giovanni Paolo II e il loro passaggio, come quello di tanti religiosi, provoca la curiosità anche di coloro che alla visita del Papa non partecipano attivamente. Man mano che ci spostiamo in periferia vediamo sempre più rom (100mila in Bosnia) che osservano, a braccia conserte, questo lungo corteo sfilare su uno sfondo di minareti e di bandiere della Santa Sede. Uno spettacolo insolito, soprattutto per chi vive in una periferia come Otoka, che ai grandi eventi non è certo abituata.
Quando arriviamo al cento diocesano giovanile Giovanni Paolo II, troviamo un gran fermento, si tratta di un luogo semplice, povero, ancora non del tutto completato, proprio come la Bosnia. Gli organizzatori lo hanno allestito al meglio e tirato a lucido. Stanno tutti molto attenti a che nessuno sporchi niente. Alcuni ragazzi si riposano sull'erba, altri preparano i canti e le coreografie, altri ancora presidiano l'entrata. Matea ci racconta che frequenta il centro da due anni, è di un paesino vicino Zenica, ma vive a Sarajevo. Frequenta l'Università e grazie al centro ha vinto una borsa di studio. Lavora qui ogni giorno, dalle 8 del mattino alle 4 del pomeriggio. Collabora all'organizzazione di conferenze, attività di socializzazione, di sport e di volontariato. Spiega che il centro è molto frequentato anche da musulmani e ortodossi e che due ragazze di fede islamica hanno partecipato con lei alla messa della mattina. Guardando il maxi schermo sul quale viene proiettato l'incontro ecumenico e interreligioso, sorride e dice: “Quello che stanno facendo loro adesso, lo facciamo qui in piccolo tutti i giorni”. Le parole di Matea ci aiutano a capire meglio quello che l'Arcivescovo e Cardinale Vinko Puljic ha dichiarato a noi in un'intervista: “Alcuni, di altre religioni, pensano che quando cerchiamo di avvicinarli è per assimilarli, per convertirli. Solo col tempo si accorgono che non è così. L'integrazione è differente dall'assimilazione, vuol dire convivenza pacifica e fertile, nel rispetto delle reciproche diversità”.
All'arrivo del Papa si levano canti e bandiere, ma i giovani sono molto disciplinati e rimangono tutti ai loro posti, compresi quelli (circa 1200 su 2000) che dovranno rimanere fuori perchè la palestra del centro è troppo piccola per ospitare tutti. “Pare che il Papa si affaccerà sul terrazzo per salutarci, confidiamo in questo perchè non segue quasi mai il protocollo”, dice qualcuno.
Così sarà. Dopo aver salutato i malati e aver ascoltato le testimonianze di due giovani, uno cattolico e l'altra ortodossa, che raccontano la loro esperienza di vita insieme, accoglie le domande di alcuni ragazzi e, con decisione, consegna a Monsignor Semren il discorso che aveva preparato e decide di parlare a braccio. Spiega perchè non guarda la televisione dal 1990, si raccomanda di usare i mezzi della tecnologia per fare il bene anziché per imbarbarirsi, afferma che dalla gioventù si aspetta “onestà e non ipocrisia, unione, costruire ponti e lasciare che si possa andare da una parte all'altra”. Dopo lo scambio di doni spontaneamente dice “Si è vero “Mirvama” (Pace a voi)… Voi, i fiori di primavera del dopoguerra, fate la pace; lavorate per la pace. Tutti insieme.”.
Il Papa, prima di ripartire, ha voluto consegnare ai giovani questo sofferto Paese. Spetta a loro costruirne il futuro, un futuro di speranza e di pace, all'insegna dello scambio culturale, etnico e religioso. Nell'ecumenismo, sembra delinearsi un domani migliore, non solo per la Bosnia, ma per tutti i Balcani