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Salvato dalla Chiesa
- Quale amicizia può sostenere un prete? Quale amore è possibile? Un sacerdote si interroga dopo il drammatico caso del prete genovese arrestato per abusi sessuali.
- "Il prete non deve essere staccato da tutti, ma attaccato alle persone come segno di Cristo"
- Se la verginità conducesse a un cuore vuoto, diventerebbe un'alienazione che poi va a cercare da qualche altra parte la sua compensazione.
Attualità
18_05_2011
La vicenda di don Riccardo Seppia, il prete della diocesi di Genova arrestato per abusi sessuali su minori e uso di droga, ha profondamente colpito l'opinione pubblica sia per la gravità dei reati commessi sia per la solitudine e la realtà di disgregazione - comunitaria e sacerdotale - in cui tale doppia vita è maturata. Proprio su quest'ultimo aspetto si era concentrato l'editoriale di ieri, firmato da Andrea Tornielli, che aveva lasciata aperta una domanda su come è stato possibile che una vita sacerdotale si sviluppasse così, quasi nell'indifferenza generale. Una provocazione a cui risponde oggi un sacerdote - che è anche collaboratore de La Bussola Quotidiana -, presentando la propria esperienza positiva di amicizia nella Chiesa, l'unica possibilità per non perdersi.
Mi sono sentito sempre un poco a disagio di fronte a sacerdoti che raccontavano di essere stati salvati dopo uno sbandamento. Non mi ci ritrovavo in quelle ‘esperienze di salvezza’ eccezionali. La mia vita è trascorsa in modo normale, senza la ferita di vicende così drammatiche. Ma in questi giorni, mentre la cronaca invade la piazza con la notizia di un sacerdote che ‘ha sbagliato’, mi ritrovo a dire a me stesso e ad altri: “Mi ha salvato la Chiesa”.
Volgendo indietro lo sguardo negli anni, posso dire di essere stato ‘salvato in anticipo’, e di aver goduto della grazia di essere stato ‘preservato’. Siamo tutti presi dentro il peccato di Adamo, e subiamo il contraccolpo della tentazione fino a venirne catturati e corrotti. Ma ci è stata data la grazia di nascere dentro una storia di salvezza e di partecipare alla comunità dei discepoli del Signore. La grazia che ha accompagnato la mia vita sacerdotale ha preso il volto e il corpo e l’anima della Chiesa: sono le persone che in questi anni mi sono state appresso, i giovani e le famiglie che ho incontrato, le parrocchie che mi hanno avuto come cappellano e come parroco, i familiari che hanno vissuto con me, le persone che hanno condiviso l’esperienza di fede nel movimento di Comunione e Liberazione, gli impegni pastorali che mi hanno fatto lottare contro il tempo, il fiato delle persone che mi pressavano.
Mi accompagna il richiamo preciso e appassionato di un maestro di vita, don Luigi Giussani: l’incontro con lui ha chiarito e sostenuto la mia decisione di continuare ad essere di Cristo e di servirlo. Sono state e sono per me stimolo e richiamo le persone che domandano Cristo, ponendomi davanti la loro angoscia, il desiderio, l’attesa, la domanda della vita; quale risposta, quale pane si può dare a chi chiede da mangiare? Basta donare se stessi, le proprie parole e prestazioni?
L’urgenza e la domanda sono così imponenti che solo una risposta adeguatamente proporzionata vi può corrispondere: il Signore Gesù, la sua persona incontrata e amata. Sono stato accompagnato a conoscerlo e a seguirlo. Mi è stata donata la ricchezza di poter parlare di Lui, indicarlo, donarlo. Al di fuori di questo, mi trovo a sperimentare desolazione, deserto e vuoto.
Mi accompagna un’esperienza reale di Chiesa, che mi circonda, mi abbraccia, mi condiziona, senza concedermi la possibilità di ‘evasioni’ nelle settimane, nelle giornate, nelle ore, persino nel tempo della vacanza. La familiarità con alcuni amici preti continua ad essere una splendida compagnia nel vivere la bellezza e la fatica del sacerdozio.
Ho potuto constatare che Cristo non è semplicemente un ideale, una presenza interiore, un pensiero o una immaginazione; non è il risultato dello studio, che pure si è intensificato negli anni dell’insegnamento intenso e impegnativo della teologia. Il rapporto con Cristo si svolge incontrando e accogliendo la sua presenza visibile e concreta nel volto, nel corpo, nel cuore della Chiesa. Amare Cristo significa amarlo nell’Eucaristia attorno alla quale Egli ci raduna; donarlo nella misericordia del sacramento della confessione; parlare di Lui, appassionandosi per l’edificazione del suo corpo.
Egli non è soltanto il Signore del cielo e il Cristo della teologia, ma il Gesù della Chiesa. Il bisogno affettivo non patisce un vuoto, ma si realizza in un amore vissuto, in un attaccamento e una vibrazione per Lui presente e vivo. Il cuore non viene indotto a disseccarsi, alienarsi, ripiegarsi su di sé, spegnendosi nell’aridità e mortificandosi nella solitudine; si può amare ed essere amati, coinvolgendosi in affetti e legami veri, vissuti con passione.
Chi insiste a dire che il prete deve essere staccato da tutti, ha già cominciato a tracciare la strada della sua perdizione. E’ una grazia l’attaccamento alle persone come segno di Cristo, l’amore a una sposa concreta e non ideale, la sposa che è la Chiesa, non generica o astratta, ma reale nel volto di uomini e donne e bambini per la cui felicità preghi e speri e soffri e lotti, amando con affetto di fratello, di padre, di sposo. Il prete non è chiamato a vivere staccato dagli altri, ma ad affezionarsi a Cristo che opera in un avvenimento presente.
La disciplina dei sentimenti non conduce a non amare, ma ad amare e accettare di essere amato senza possedere ed essere posseduto perché già si appartiene; amare ed essere amato nella fedeltà alla propria vocazione e nel rispetto della vocazione degli altri. Quest’esperienza non introduce a un di meno, ma un di più. Avete presente la passione di san Paolo, la intensità della sua dedizione, l’irruenza del suo affetto, lui che considerava ‘fidanzata’ la comunità di Corinto, lui che è diventato padre e generatore di persone e comunità?
Se la verginità conducesse a un cuore vuoto, diventerebbe un’alienazione che va poi a cercare da qualche altra parte la sua compensazione. La verginità è un modo diverso e intenso di amare e di essere amati. Gesù è riconosciuto, amato e servito nei fratelli e nelle sorelle, in una dinamica affettiva che entra in gioco non solo nel contatto con persone sconosciute, povere e derelitte, ma assai di più nel rapporto quotidiano con le persone per le quali e con le quali si vive e si lavora. A questa Chiesa, alla quale domando di accompagnarmi nella storia di ogni giorno, continuo ad affidarmi per il presente e per il futuro.