"Salvate i curdi". I pacifisti reclamano più bombe. O no?
Cobas, centri sociali, Rifondazione comunista, anarchici e tutta la galassia del pacifismo internazionale. Il 1 novembre sono scensi in piazza per la Manifestazione Globale a sostegno del popolo curdo e contro i tagliagola dell'Isis. Per chiedere alla Coalizione guidata dagli Usa più bombardi e più guerra. Incredibile, no?
Da “yankee go home” a “Forza America, dacci dentro”: il pueblo unido della sinistra antagonista e rifondarola torna in piazza per chiedere la mobilitazione internazionale dei compagni e delle forze anti fasciste mondiali. Stavolta, però, a nemici rovesciati. Non più contro lo zio Sam e i marines del Pentagono, e a fianco dei valorosi guerriglieri talebani e saddamiti. No, oggi nel fronte dei cattivi ci sono gli islamici dell’Isis, i tagliagole assassini che vorrebbero issare le bandiere nere del Califfato su tutto l’Oriente. E i nuovi amici, i nuovi eroi acquisiti, sono i combattenti curdi che nella regione siriana del Rojava (Kurdistan occidentale) stanno difendendo fino alla morte l’indipendenza di uno Stato, socialista e libertario, unico esempio rimasto oggi al mondo. E agli amerikani, quelli i sinistri scrivevano con la "k"? Ora non sganciano più le bombe come in Kosovo o lanciano missili intelligenti, come nelle due guerre del Golfo, ma lo dovrebbero fare.
Sì, avete letto bene: la sinistra ultrà e disobbediente, quella dei centri sociali e delle sigle più fantasiose e terribili (dipende se si leggono, partendo da sinistra o da destra) chiedono all’America del riluttante Obama di tornare a fare quello che ha fatto sempre e bene: bombardare dal cielo, invadere da terra, inviare armare e consiglieri della Cia ai combattenti locali. Per questo Arci, Fiom, Sel, Rifondazione Comunista, la Rete per la pace, i Cobas e un centinaio di centri sociali di tutta Italia toneranno in piazza domani, 1 novembre per “Save Kobanê”, Manifestazione globale contro Isis e a sostegno della città martire, simbolo delle resistenza curda. In piazza ma non a sventolare le scolorite bandiere della pace o a chiedere il disarmo unilaterale delle truppe americane e della Nato. Ma no, stavolta sarà tutto il contrario. Così almeno scrivono nel loro appello gli organizzatori della Manifestazione Globale.
I pacifisti anti Bush di un tempo, oggi chiedono alla Coalizione internazionale guidata gli Usa più bombe e più missili, insomma: più guerra. Pare incredibile, ma è così. Ecco cosa scrivono: «La cosiddetta coalizione internazionale per combattere Isis non ha aiutato la resistenza kurda in modo efficace nonostante stia assistendo al genocidio in atto contro Kobanê. Non hanno adempiuto ai loro effettivi obblighi di legalità internazionale. Alcuni Paesi nella coalizione, in particolare la Turchia, sono tra i sostenitori finanziari e militari dei terroristi di Isis in Iraq e Siria». Beh, se le parole hanno un senso, accusare la Coalizione anti Isis di non agire «in modo efficace», per ristabilire «la legalità internazionale» altro non dovrebbe significare che con quei terroristi islamici il pugno deve essere ancora più duro, che non bastano i raid dei droni, ma occorre un dispiegamento di armi e truppe ben più vasto e potente. Insomma, come dicevano una volta: “hasta la victoria”. E per essere ancora più chiari, il cartello della Manifestazione Globale informa i militanti che «centinaia di migliaia di civili sono minacciati dal più brutale genocidio della storia moderna. La popolazione di Kobanê sta cercando di resistere usando armi leggere contro i più brutali attacchi dei terroristi di Isis, assistita solo dalle Unità di Difesa del Popolo nel Kurdistan occidentale, ma senza alcun aiuto internazionale». Bravi, niente da dire, è proprio così.
Condivisibile anche il motivo per cui occorre denunciare il silenzio mediatico e l’indifferenza dell’opinione pubblica che, passata l’emozione seguita ai scioccanti filmati degli sgozzamenti, è tornata a dormire sonni tranquilli. Con tanto saluti al popolo curdo, ai cristiani cacciati e uccisi e alla minoranza yazida. Il sito di qualche centro sociale infroma che la regione kurda autonoma del Rojava è «uno dei pochi raggi di luce a emergere dalla tragedia della rivoluzione siriana». Dopo aver scacciato gli agenti del regime di Assad nel 2011, nonostante l’ostilità di quasi tutti i suoi vicini, il Rojava non solo ha mantenuto la sua indipendenza, ma «si è configurato come un considerevole esperimento socialista e libertario. Sono state create assemblee popolari che costituiscono il supremo organo decisionale, consigli che rispettano un attento equilibrio etnico (in ogni municipalità, per esempio, le tre cariche più importanti devono essere ricoperte da un curdo, un arabo e un assiro o armeno cristiano, e almeno uno dei tre deve essere una donna), ci sono consigli delle donne e dei giovani, e c’è un’armata composta esclusivamente da donne, la milizia Yja Star (l’”Unione delle donne libere”), che ha condotto una larga parte delle operazioni di combattimento contro le forze integraliste dello Stato Islamico». Insomma, «il modello democratico del Rojava è una spina nel fianco dei gruppi terroristici come Al Qaeda, Jubhat al Nusra e Isis».Così come per la Turchia e i regimi di Arabia Saudita e Qatar che lo sostengono e finanziano con i profitti del petrolio. Ankara, poi ha anche altre responsabilità: è tra i primi acquirenti del greggio estratto dai pozzi conquistati dall’Isis, e blocca da settimane al confine i combattenti provenienti dal Kurdistan turco, impedendo l’arrivo dei rinforzi.
Domani dunque, tutti in piazza a fianco del popolo kurdo. E fa niente se si rischierà di stare sotto qualche bandiera rossa, perché in fondo, come già cantava lo sconsolato Giorgio Gaber, 13 anni fa, in Cos’è la destra, cos’è la sinistra: «Anche il Papa ultimamente è un po' a sinistra, è il demonio che ora è andato a destra». One momenti, please. Se le ragioni pro Kurdistan sono buone e giuste, un po’ meno raccomandabile è la bella compagnia che le propone. Basta compulsare i nomi di personaggi e gruppi che hanno aderito all’appello per rendersene conto. Ci sono le solite griffe civetta e attiragonzi, come quella del filosofo e anarchico Noam Chomsky, del Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel e dell’arcivescovo emerito sudafricano Desmond Tutu. Moni Ovadia viene segnalato con la qualifica di performer e il suo nome è inserito tra un capo dei campesiños peruviani e il presidente dell’associazione “Salvate l’India da Imperialismo & Sionismo” (quelle indiane sono tra le firme più numerose: ce ne sono almeno una trentina). Nel mazzo, spuntano i nomi di Fernando Signorini, ex coach della squadra di calcio dell’Argentina e di tal Francisco Velasco, ministro della Cultura dell’Ecuador. A rappresentare l’Italia ci sono i leader di tutta la galassia dei centri sociali e delle organizzazioni pacifiste, i Cobas, la Fiom con Rinaldini e Cremaschi, qualche sigla anarchica e alcuni bei nomi dell’antagonismo d’antan. Come il desaparecido Luca Casarin, un tempo team principal dei “Disobbedienti” del Nordest e la celebre Silvia Baraldini, l’italiana detenuta per anni con l’accusa di terrorismo nel carcere americano di Lexington e poi consegnata all’Italia dpo estenuante trattativa con il governo. A quel tempo era premier Massimo D'Alema. Non poteva mancare, infine, Dario Fo, nella sua veste di letterato nobiliare.
Con tutta ‘sta bella gente, l’inghippo da qualche parte s’annida di certo e il trucco c’è anche se non si vede. A svelarlo è Sinistra e Libertà, il partito di Nichi Vendola , domani in piazza pure lui. La Manifestazione Globale, dicono sul loro sito, servirà anche a chiedere che il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, di Abdullah Ocalan, detto Apo, venga cancellato dalla black list mondiale delle organizzazioni terroristiche e Apo, detenuto da anni in un carcere turco, sia liberato. Ecco che si spiega tanta premura e commozione per la causa anti Isis di tanti ultrà sinistri diventati oggi improbabili neo-supporter dell’America. Il Pkk di Apo nasceva come formazione armata di ispirazione marxista-leninista, firmò attentati sanguinosi, scontri con l’esercito e assalti a caserme: una guerra che costò alla Turchia migliaia di morti. Ocalan, condannato a morte dal governo turco, si rifugiò in Italia nel 1998 e chiese asilo politico. Il governo, sempre guidato da Massimo D’Alema, tergiversò a lungo, così che il guerrigliero Apo soggiornò per settimane a Roma a spese dello Stato, protetto e scortato dagli agenti della Digos.
Dunque, la manifestazione di domani, sarà una bella occasione per rinverdire la lotta armata del partigiano Ocalan e del suo Pkk, una fazione piccola piccola che ha poco a che fare con il popolo kurdo che combatte contro gli islamici dell’Isis. Capito il solito gioco dei compagni guerrafondai? Difenderli tutti per liberarne uno. Ok, save Kobane, ma Apo non vale una manifestazione, tantomeno una performance con Moni Ovadia.