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Rwanda, l'Onu non ha imparato la dura lezione

Il mancato intervento dei caschi blu per prevenire il genocidio in Rwanda, nel 1994, è definito da Ban Ki-moon "una vergogna". Il problema vero, però, è che l'Onu non ha affatto tratto insegnamenti da quell'errore. In Sud Sudan, nella Repubblica Democratica del Congo, in Mali e in Centrafrica, le Nazioni Unite non prevengono le guerre civili, né i rischi di genocidio.

Esteri 01_05_2014
Machete in Centrafrica

«Il genocidio del Rwanda resta una vergogna per le Nazioni Unite. I caschi blu sono stati ritirati nel momento in cui c’era più bisogno» ha dichiarato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon il 7 aprile intervenendo nella capitale rwandese Kigali alla cerimonia con cui sono iniziate le celebrazioni per il ventennale di una delle più cruente guerre civili dell’Africa indipendente. Ban Ki-moon si riferiva al fatto che all’inizio della crisi, il 7 aprile 1994, fu richiamato gran parte del personale della UNAMIR, la missione inviata in Rwanda nel 1993 proprio per contenere le tensioni etniche tra Hutu e Tutsi. Comunque la UNAMIR sarebbe stata incapace di impedire il genocidio anche a pieno regime per il numero insufficiente di militari (solo 2.500) e per le regole di ingaggio poco chiare. Ci vollero poi più di sei settimane prima che il Consiglio di Sicurezza decidesse l’invio di rinforzi: 5.500 militari che però i paesi incaricati della missione rifiutarono di mettere a disposizione finchè durarono le stragi, vale a dire 100 giorni, durante i quali furono uccise da 800.000 a un milione di persone.

Quel che Ban Ki-moon ha evitato di dire a Kigali è che la vergogna del genocidio, per le Nazioni Unite, non è stata cancellata soprattutto perchè il Palazzo di Vetro non ha tratto insegnamento dal proprio fallimento nell’impedirlo e da allora ha lasciato che altre stragi si compissero senza agire con la prontezza e l’effiacia necessarie.

Il Sud Sudan è indipendente dal Sudan dal 9 luglio del 2011. Il giorno prima il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva votato una risoluzione che rendeva immediatamente operativa la UNMISS, una missione forte di 7.000 militari e 900 civili, con il mandato di sostenere il governo del nuovo stato nel processo di consolidamento della pace e di sviluppo dell’economia e di assisterlo nel prevenire, attenuare e risolvere i conflitti e proteggere la popolazione civile. Dallo scorso dicembre uno scontro di potere su base etnica ha travolto le istituzioni del paese degenerando in poche settimane in un conflitto tra le due principali etnie: i Dinka e i Nuer. Il bilancio delle vittime cresce di giorno in giorno: oltre 10.000 i morti e circa un milione gli sfollati. Per i massacri di civili, per la violenza con cui si infierisce da entrambe le parti su di loro ricorre da settimane l’espressione “pulizia etnica”. Già da metà aprile avrebbe dovuto essere dispiegato un contingente africano promesso dall’IGAD, Autorità intergovernativa per lo sviluppo, l’organo regionale che media tra il presidente Dinka, Salva Kiir, e Riek Machar, l’ex vicepresidente Nuer destituito nel luglio del 2013. In realtà l’IGAD non dispone delle risorse per finanziare la missione. La UNMISS intanto sta a guardare.

Nella Repubblica Democratica del Congo, RDC, la MONUSCO di effettivi ne ha più di 21.000 tra militari e agenti di polizia, a cui si aggiungono quasi 4.500 civili. È nata nel 2010 per sostituire la MONUC, istituita a sua volta nel 2000 come forza di peacekeeping durante la seconda guerra dell’RDC, conclusasi nel 2003, ma in realtà tuttora in corso nelle regioni orientali del paese, roccaforti di numerosi gruppi armati. La MONUSCO è la più grande e costosa missione mai realizzata dalle Nazioni Unite: il suo bilancio per il periodo dal 1 luglio 2013 al 30 giugno 2014 è di 1.456.378.300 dollari  Ha il mandato tra l’altro di proteggere i civili, il personale umanitario e i difensori dei diritti umani se minacciati di violenza fisica, usando tutti i mezzi necessari allo scopo. Ha fatto talmente poco per i civili vessati dai gruppi armati che continuano a imperversare nell’Est da vedersi più volte le sedi attaccate dalla gente esasperata per la mancata protezione.

In Mali è operativa la MINUSMA. Nel gennaio del 2012 un tentativo di secessione dell’Azawad, il Nord desertico, e un colpo di stato nel marzo successivo hanno sprofondato il paese in una crisi istituzionale e umanitaria aggravatasi quando tre gruppi jihadisti hanno assunto il controllo dell’Azawad imponendovi la legge coranica. «Il quotidiano della popolazione maliana nelle zone occupate è ben noto a tutti –  spiegava il 5 dicembre 2012 il Ministro maliano per l’integrazione africana e i maliani residenti all’estero, Traore Rokiatou Guikine, sollecitando durante una riunione del Consiglio di sicurezza dell’ONU un intervento militare esterno di cui si stava discutendo da mesi – è fatto di arruolamento forzato di bambini, flagellazioni, amputazioni di arti, esecuzioni sommarie, stupri, lapidazioni e distruzione di siti storici e patrimonio culturale». Ban Ki-moon, dopo aver caldeggiato l’iniziativa, aveva in seguito espresso dubbi sulla fattibilità e sull’utilità di un’operazione militare e l’inviato speciale dell’ONU nel Sahel, l’italiano Romano Prodi, aveva dichiarato che, comunque, un’azione militare non sarebbe stata possibile prima del settembre 2013. Il Consiglio di Sicurezza aveva quindi votato l’istituzione della MINUSMA a fine aprile del 2013 e la missione era stata dispiegata solo il 1° luglio successivo. Nel frattempo, a partire dal gennaio 2013, era intervenuta militarmente la Francia con l’operazione Serval. 

La crisi che attanaglia la Repubblica Centrafricana è iniziata nel dicembre del 2012 quando una coalizione di forze antigovernative, Seleka, ha preso le armi contro il governo. Nel marzo 2013 Seleka ha conquistato il potere con un colpo di stato, costringendo all’esilio il presidente François Bozize. Seleka è composta da miliziani islamici in prevalenza stranieri, originari del Sudan e del Ciad. Per mesi hanno abusato della popolazione cristiana, maggioritaria nel paese, finchè questa ha reagito organizzando delle milizie di autodifesa, le Anti-Balaka, che presto hanno incominciato a compiere azioni contro la popolazione islamica, ricambiando la violenza subita con altrettanta violenza. Dallo scorso dicembre la situazione nel paese è definita di “pre-genocidio”. Solo il 10 aprile il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato il dispiegamento di una missione ONU composta da 12.000 caschi blu: che entrerà in funzione il 15 settembre 2014.

Migliaia di islamici vengono portati nel Nord, dove si concentra la minoranza musulmana, per salvarli dalla furia degli Anti-Balaka. A loro volta emigrano verso Sud i cristiani residenti al Nord, sotto la minaccia dei miliziani islamici. «Nel ventennale del genocidio del Rwanda – ha dichiarato di recente il presidente della comunità islamica centrafricana, l’imam Omar Kobine Layama – l’insegnamento è che la mancanza di un impegno politico può portare a una catastrofe». «Ci complimentiamo (per la decisione del Consiglio di sicurezza) – è stato il commento di Monsignor Dieudonné Nzapalainga, vescovo di Bangui – ma le pulizie etniche continuano e altre migliaia di persone rischiano di perdere la vita». Entrambe le autorità religiose sollecitano un sostegno immediato alla MISCA, la missione africana con supporto francese che dal dicembre del 2013 svolge, con risultati del tutto insoddisfacenti, il compito di interporsi e impedire le stragi.