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20 ANNI DOPO

Rwanda, il tribalismo è alla base del genocidio

Le radici della violenza genocida in Rwanda, così come nelle guerre civili in Liberia, Sierra Leone e Darfur, vanno ricercate fra quelle che Benedetto XVI aveva indicato quali cause prime della sofferenza africana: tribalismo, stregoneria e corruzione.

Esteri 08_05_2014
Rwanda

Tutti gli africani hanno un panga. Per secoli questo lungo falcetto insieme alla zappa dal manico corto e al bastone da scavo sono stati gli attrezzi con cui si è praticata l’agricoltura in Africa.

È dunque con un comune attrezzo da lavoro che centinaia di migliaia di persone sono state uccise 20 anni fa in Rwanda; oppure con bastoni, pietre... qualsiasi cosa a portata di mano, come incitavano a fare gli estremisti di Potere Hutu dagli studi di Radio Mille Colline: “...qualsiasi strumento tradizionale va bene”. E andarono bene anche fiammiferi e benzina con cui furono bruciati vivi tanti Tutsi rinchiusi a forza in edifici poi dati alle fiamme o intrappolati in chiese e scuole dove si erano rifugiati pensando di essere al sicuro.

Il genocidio del Rwanda ha dimostrato l’infondatezza della convinzione che i fabbricanti di armi siano i colpevoli di guerre e conflitti che, se no, non scoppierebbero o non farebbero così tante vittime.

Ha anche provato, nella maniera più feroce, la persistenza del tribalismo, responsabile dei conflitti civili scatenatisi in Africa durante le rivolte che misero fine alla colonizzazione europea e negli anni successivi: tutti motivati dalla determinazione di due o più etnie di contendersi il potere e resi possibili dalla pronta partecipazione di gente tradizionalmente educata a diffidare di chi appartiene ad altre comunità.

Nei 20 anni trascorsi dal genocidio dei Tutsi, non è passato giorno in Africa senza che si verificassero scontri tra comunità tribali per terre, sorgenti, pascoli e per razzia. Quando la posta in gioco è stata il controllo di risorse preziose – diamanti, petrolio, uranio... – ha coinvolto, come in Rwanda, milioni di persone.

Il tribalismo continua dunque a rappresentare una delle principali cause di instabilità, povertà, mancato sviluppo. “Se vogliamo essere onesti – disse il presidente degli Stati Uniti Barak Obama nel memorabile discorso pronunciato ad Accra nel 2009 – dobbiamo riconoscere che per troppi Africani il conflitto fa parte della vita; è una costante come il sole. Ci si batte per dei territori, ci si batte per delle risorse ed è sempre troppo facile per individui senza coscienza trascinare intere comunità in guerre di religione e tribali. Tutti questi conflitti pesano sull’Africa come una vera palla al piede. Noi tutti siamo divisi secondo le nostre diverse identità, di tribù e di etnia, di religione e di nazionalità. Ma definirsi per opposizione a una persona di un’altra tribù o che venera un diverso profeta, questo non deve più accadere nel XXI secolo”. 

Pochi mesi prima Papa Benedetto XVI in visita in Camerun e Angola aveva individuato nella corruzione, nella stregoneria e nel tribalismo le cause prime delle sofferenze dei popoli africani. Due anni dopo, nel 2011, durante la visita in Benin avrebbe riparlato dei “frutti feroci del tribalismo e delle rivalità etniche”, della tendenza delle comunità africane a chiudersi e a respingere gli estranei ricordando il vincolo “più forte di quello delle nostre famiglie terrene e di quello delle vostre tribù che si crea attorno all’altare”. 

Tra le guerre più gravi esplose in Africa degli ultimi 20 anni, figurano quelle di Liberia, Sierra Leone e Darfur. Nel 1994, mentre il conflitto rwandese degenerava in genocidio, la Liberia entrava nel suo quinto anno di guerra. Nel 1980 Samuel Doe con un colpo di stato era diventato il primo presidente non afroamericano, vale a dire non discendente di ex schiavi tornati in Africa dopo la fondazione del paese nel 1847 su iniziativa degli Stati Uniti proprio per dare una patria agli schiavi deportati nelle Americhe nei secoli precedenti. Fino ad allora la popolazione indigena era stata esclusa dal potere. Nel 1989 un ex ministro in esilio, Charles Taylor, a capo di una milizia composta prevalentemente da etnie originarie del nord del paese e addestrata nella vicina Costa d’Avorio, organizzò una rivolta dando inizio alla guerra civile. Poco tempo dopo anche un suo ex soldato, Prince Johnson, si mise a capo di un esercito e nel 1990 si impadronì della capitale Monrovia e uccise Doe. Lo scontro continuò tra Taylor e Johnson. Nonostante la pace firmata nel 1995 e le successive elezioni che nel 1997 videro la vittoria di Taylor, si continuò a combattere. Nel 1999, con la nascita di un movimento antigovernativo nel nord, il Lurd, la guerra riprese violenta. Il conflitto civile terminò nel 2003 con le dimissioni di Taylor e il suo volontario esilio in Nigeria. Tra il 1989 e il 2003 morirono da 200.000 a 300.000 liberiani (circa un decimo della popolazione) e un milione di persone furono costrette a fuggire nei paesi vicini, lasciando deserte intere regioni.

La guerra civile combattuta tra il 1991 e il 2002 nella vicina Sierra Leone fu ancora peggiore. Iniziò nel marzo del 1991 con il tentativo fallito del Ruf, il Fronte rivoluzionario unito sostenuto da Charles Taylor, di rovesciare il presidente Joseph Momo. Fin dal primo anno di guerra il Ruf riuscì a controllare le regioni orientali e meridionali ricche di “diamanti insanguinati”, così chiamati a causa del sangue che fu versato per impadronirsene. Su quattro milioni circa di abitanti, i profughi e gli sfollati furono 2,5 milioni; tra 100.000 e 300.000 i morti. Amputare mani, braccia, piedi, gambe era uno dei modi che i miliziani usavano per terrorizzare la popolazione. Furono mutilate oltre 30.000 persone, tra cui molti bambini, e migliaia vennero marchiati a fuoco in viso o sul corpo con le iniziali RUF.

Nove anni dopo il genocidio dei Tutsi, nel 2003, un’altra cruenta guerra civile scoppiò nei tre stati del Darfur, in Sudan. Iniziò allorché il Sudan Liberation Movement e il Justice and Equality Movement insorsero in difesa delle tribù non arabe marginalizzate e discriminate dal governo e minacciate dalle tribù arabe della regione. Il governo del presidente Omar Hassan al Bashir rispose armando e finanziando delle milizie che presero il nome di Janjaweed e attuando la pulizia etnica del territorio con lo sterminio e l’esodo forzato delle tribù non arabe Fur, Zaghawa e Masalit. Un conflitto a bassa intensità è tuttora in corso nonostante i cessate il fuoco e gli accordi di pace firmati nel corso degli anni. Si stima che finora le vittime siano tra 180.000 e 460.000 e  2.850.000 gli sfollati e i profughi: circa metà della popolazione. Nel 2009 la Corte penale internazionale ha emesso un mandato internazionale di arresto nei confronti del presidente al Bashir dopo averlo incriminato per crimini di guerra e contro l’umanità. Nel 2010 la Corte ha emesso un secondo mandato di arresto aggiungendo alle precedenti l’accusa di genocidio.